ROMA - Alfonso Cuarón ci porta nel Messico diviso degli anni '70 • MUSIC.IT
Una foto di scena di "Roma" di Alfonso Cuarón (a cura di Carlos Somonte).
Una foto di scena di "Roma" di Alfonso Cuarón (a cura di Carlos Somonte).

ROMA – Alfonso Cuarón disegna il ritratto di un Messico diviso in bianco e nero

Fortissimo degli incensi guadagnati a ragione negli anni, in quello mirabilis di “Gravity” che nel 2013 aveva aperto Venezia ma soprattutto avviava la perdurante rivoluzione pop del festival, arriva in Concorso “Roma” di Alfonso Cuarón. Il regista messicano, appartenente al triangolo messicano-hollywoodiano con Guillermo Del Toro e Alejandro González Iñárritu, stavolta alza l’asticella del proprio discorso filmico, realizzando un’opera più marcatamente autoriale e meno roboante dei suoi lavori precedenti.

“Roma” è un quartiere borghese di Città del Messico. Cleo, giovane donna di origine mixteca, lavora come domestica presso la famiglia di Sofia, madre di quattro figli alle prese con un matrimonio agonizzante. Le giornate trascorrono come d’abitudine. Cleo si occupa della casa e dei bambini e Sofia del suo ruolo di moglie, mentre i disordini politici abbandonano lo sfondo e cominciano a sferzare le loro vite portando con sé cambiamenti intimi ed epocali.

“Roma” di Alfonso Cuarón esige del tempo. Tutto quello che occorre per mettere a posto ogni tassello di questo ritratto eccezionale. Persino il tempo di una seconda visione.

Alfonso Cuarón firma il suo film più sentito, personale e levigato, attingendo dalla memoria e dai luoghi della sua infanzia sentimenti autentici. Nulla è accaduto realmente di quanto raccontato, ma tutto è autenticamente vissuto. Un paradosso possibile e miracoloso, avverato dalla credibilità di una storia ordinaria raccolta sul fondo dei propri ricordi. Di quelli che lo hanno formato come uomo e di ciò che ha plasmato il nuovo volto del Messico. Cleo e Sofia diventano modelli inconsapevoli di una svolta matriarcale, emblemi di coraggio e resilienza, piccola e grande. Donne divise dalla classe e dall’etnia, avvicinate da esigenze diverse e infine affiliate dal destino.

“Roma” è una parabola crescente racchiusa in parentesi tra due estati, un’opera stratificata che si fortifica di minuto in minuto. Con gradata costanza, le liturgie domestiche indietreggiano dinanzi ai drammi crescenti delle due protagoniste. Tragedie intime e problemi comuni sono racchiusi tra le mura di un portone stretto e di una villa ortogonale; questi procedono paralleli, si sfiorano, infine si abbracciano nel dolore e nell’amore.

Alfonso Cuarón firma “Roma”, il suo film più sentito, personale e levigato, attingendo dalla memoria e dai luoghi della sua infanzia sentimenti autentici.

Ripulito di qualsiasi sovrastruttura registica, il film cresce nell’essenziale bianco e nero. Panoramiche rette percorrono gli interni mentre altrove le carrellate affiancano le vie. La macchina da presa esclude gli eccessi del proprio potenziale preferendo avvicinarsi ai volti solo di tanto in tanto, per valorizzare l’amalgama di corpi e spazi, restando al di qua di porte e cornici. Lo sguardo di Alfonso Cuarón si tiene a una distanza discreta e rispettosa, eppure tutto sembra incredibilmente vicino. L’estraneo muta in familiare attraverso la forza dell’empatia umana. Solo di questa. Ciò che basta perché lo schermo diventi uno specchio a misura d’uomo.

“Roma” esige del tempo. Tutto quello che occorre per mettere a posto ogni tassello di questo ritratto eccezionale. Persino il tempo di una seconda visione. Tutti i minuti necessari per rendersi conto del potenziale delicatissimo del film. Tanto tempo quanto occorre a una donna per rendicontare la propria forza, ciò che si è, che non si è stato ma che si può essere. Ciò che si è voluto o mai desiderato. Fino a un riscatto materno che sulle rive dell’oceano in tumulto acquieta i rimorsi e concede un nuovo ciclico inizio: una scala risalita e uno sguardo al cielo.

https://youtu.be/fp_i7cnOgbQ