L’Epifania tutte le feste porta via. Quest’anno il 7 gennaio, giorno del traumatico rientro alla quotidianità, cade anche di lunedì. Ma ieri non è stato un lunedì come tutti gli altri. Alle ore 19 al Padiglione Pelanda del Mattatoio si sono inaugurati ben due palchi su cui si sfideranno per 18 serate gli spettacoli del Roma Fringe Festival, ormai alla sua VII edizione. Il festival più importante del teatro indipendente è un’occasione perfetta per le compagnie che sono riuscite a partecipare alla selezione. Il vincitore del Roma Fringe Festival, infatti, avrà la possibilità di andare in scena in 14 teatri d’Italia. Saranno solo 3 spettacoli dei 35 concorrenti a giocare la partita finale il 28 gennaio al Teatro Vascello. Non ci resta che fare un caloroso in bocca al lupo a tutte le compagnie partecipanti.
L’AFFARE MELGHERA
Torbido credo sia l’aggettivo che descrive appieno “L’affare Melghera”, il copione di Niccolò Matcovich che ha inaugurato il palco A del Roma Fringe Festival con la Compagnia Habitas. Torbida e lurida è, infatti, l’ambientazione in cui si cerca di diradare la nebbia che avvolge la relazione tra due fratelli, inscenati da Gabriel Montesi e Antonio Orlando. Muri scrostati su cui è stato trascritto un accenno di gioco dell’impiccato dividono il palco in un davanti e un dietro inaccessibile agli occhi del pubblico. La svolazzante plastica trasparente al posto dei vetri alle finestre, inservibile a escludere le intemperie, fa entrare nel caldo del padiglione Pelanda un po’ di gelo invernale.
Non c’è niente di vivo sulla scena. I personaggi sono ammuffiti come la legna accatastata in disordine vicino alle pareti di una cascina in decadenza. Persino il fratello buono, quello ben vestito, sembra affetto dalla stessa decadenza di cui l’altro si nutre. Non è solo il legame di sangue a rendere incredibilmente simili i due fratelli. L’analogia che li lega prescinde da come le rispettive pieghe esistenziali si sono sviluppate, in modo radicalmente opposto. L’unico elemento vivo di “L’affare Melghera” è il latrato di una bestia che in qualche modo accomuna i due uomini.
La scrittura di “L’affare Melghera” di Niccolò Matcovich è enigmatica e non si lascia sbrogliare in alcun modo.
La scrittura di Niccolò Matcovich è enigmatica e non si lascia sbrogliare in alcun modo. È inusuale come in un copione strutturato da botte e risposte molto serrate riesca ad andare oltre la quarta parete solo la comunicazione non verbale, momenti in cui la bestia entra nell’anima dei due fratelli, facendoli scontrare in un veritiero corpo a corpo animalesco. Tanto può l’energia dettata dallo spirito di sopravvivenza che il fratello reietto – che sceglie volontariamente di vivere nella disgrazia, fuori dalla noia e dalla routine che affettano l’altro – smette persino di zoppicare. Sono due antieroi alla maniera di M. Night Shyamalan, in “Spilt” e “Unbreakeable”, che si ergono in tutta la loro potenza nel momento in cui accettano il buio e il vuoto.
La regia di Chiara Aquaro potrebbe prestare più attenzione ai limiti e alle differenze imprescindibili che dividono il teatro dal cinema. In questo modo l’unico dubbio sulla resa dello spettacolo sarebbe sull’eccessivo ermetismo del copione. Gli effetti scenici e sonori, per quanto contribuiscano a creare una scenografia perfetta, troppo spesso sovrastano le voci degli attori. Forse si potrebbe diluire in qualche modo una drammaturgia così densa, evitando di forzare le teste del pubblico su diagonali su cui gli attori sono tesi dall’inizio alla fine. Forse a mancare è proprio un motivo comprensibile dello scioglimento definitivo della tensione creata fin dal primo quadro. L’abbraccio fraterno in cui si scioglie il dramma non è una ragione sufficiente.
DECAMERON – TUTTO NEL BAULE
Non mi dispiace il teatro fatto di cose semplici e con cose semplici. È il caso di “Decameron – Tutto nel baule”, uno spettacolo minimale negli oggetti di scena e nei costumi, una drammaturgia che pesa interamente sulle spalle di Filippo Mantoni e Michele Nardi. Nella Firenze di Giovanni Boccaccio, quella piagata dalla peste, sembra esserci un solo modo per esorcizzare la paura della morte: raccontare storie. La cornice in cui si torna a parlare ancora di fortuna, amore e ingegno è però dettata da una necessità ben diversa. Non c’è più la noia nobiliare, che per Giovanni Boccaccio costituiva l’eziologia della diegesi ma anche della destinazione dell’opera stessa.
Filippo Mantoni e Michele Nardi sono, infatti, due giullari che hanno salvato la testa per un pelo. Si sa, l’occasione fa l’uomo ladro, e la curiosità non è solo donna. I due allegri bricconi trasportano fuori dalle mura cittadine un baule piuttosto pesante. Indecisi se aprire o meno il pesante baule, non possono fare a meno di continuare a fare ciò che hanno fatto prima della peste, quando la vita trascorreva in tutta la sua normalità. Di fronte alla tentazione di cedere alla curiosità, sciorinano novelle boccaccesche al fine di giustificare ogni presa di posizione sul mondo. Le narrano, le mimano e alcune persino le cantano.
Non è sull’originalità che punta il copione di “Decameron – Tutto nel baule”.
Non è sull’originalità che punta il copione di “Decameron – Tutto nel baule”. È piuttosto sulla buona alchimia tra i due compagni di disavventure che la regia di Flavia Martino costruisce l’intera resa scenica. Attraverso la narrazione e la mimica Michele Nardi e Filippo Mantoni non sempre riescono a ricostruire quella scenografia volutamente assente. Il copione complessivamente brillante necessita, inoltre, di essere asciugato in alcune parti. Le novelle che vengono narrate corrono il rischio di essere grani di un rosario: coerenti nei collegamenti reciproci, ma soporifere.
Le reiterazioni formulari, funzionali alla narrazione, rimandano in qualche modo all’antichissima tradizione degli aedi. Oggi rischiano di essere banalmente noiose, rallentando il ritmo dello spettacolo, piuttosto che suscitare sincere risate. Resta il fatto che il copione di “Decameron – Tutto nel baule” è ben scritto, brillante per certi versi, mai offensivo o volgare. È davvero un peccato, tra le altre cose, che rumori fuoriscena disturbassero la performance dei due artisti. Una piaga davvero imperdonabile per il Roma Fringe Festival.
Tra fastidiosi suoni provenienti dall’altra scena e comprensibili e perdonabili ritardi tecnici, gli spettacoli del Palco A Roma Fringe Festival hanno lasciato spazio a tiepide reazioni del pubblico. D’altronde è lunedì 7 gennaio per tutti.