Oggi su Music.it abbiamo Luca Fainello dei Sonohra. Ti do il benvenuto sulle nostre pagine! Quand’è che avete capito che sarebbe stata la musica la vostra vita?
La nostra passione per la musica è nata quando eravamo bambini. Ce l’abbiamo sempre avuta. Essendo io il più grande avevo già cominciato a intraprendere questa strada con gli studi. Mio fratello mi ha seguito. Il passo vero è stato cominciare a suonare nei locali, una quindicina d’anni fa. Era iniziato tutto per caso. Poi man mano la cosa ha preso piede fino ad arrivare a fare 250/260 serate all’anno tra bar e locali. Questa cosa ha cominciato a farci notare. Fino a che una sera, in un bar sul Lago di Garda, un produttore si è interessato a noi. Ci ha proposti alla Sony che ci ha fatto un contratto, ci ha fatto fare Sanremo e da lì è partito tutto.
E prima ancora? Ricordi il momento in cui ti sei detto: «caspita, voglio fare questa cosa qui»?
Beh, sì. Volevamo fare i musicisti da grandi, più o meno come i ragazzini appassionati di calcio sognano di diventare calciatori. È successo e venuto fuori tutto in maniera spontanea. Io suonavo il pianoforte. Anzi, prima ancora suonavo il clarinetto!
Molto interessante! Continuiamo a ricostruire il vostro percorso. Siete nati e cresciuti a Verona. Mi domando quanto sia importante la città in cui si muovono i primi passi. Puoi parlarmene?
Verona è stata importante perché comunque è il luogo in cui tutto ha avuto inizio. Ovviamente avere vicino anche il Lago di Garda, è stata una fortuna. Il Lago di Garda è una meta turistica frequentata prevalentemente da turisti nord europei, e quindi abbiamo avuto da subito l’occasione di suonare di fronte a un pubblico internazionale.
La nostra musica all’epoca era molto influenzata dal blues e dal folk, ed era apprezzata particolarmente da quel tipo di clientela. Non è un caso che siamo arrivati a suonare in Germania prima di partecipare al Festival di Sanremo. Sono esperienze che ti proiettano subito nella vita da musicista. Sono stati anni bellissimi quelli prima del Festival.
E poi, appunto, il Festival è arrivato. Un Festival che è un’istituzione, una vetrina importantissima. La domanda è: quanto pesa oggi, se pesa, il valore di questa vetrina?
Il Festival di Sanremo è importante perché ti dà la possibilità di farti vedere a un pubblico estremamente eterogeneo e vario, oltre che di farti vedere fuori dall’Italia. Basti pensare che giorni fa hanno stilato la classifica dei primi undici o dodici big. Ci sono tantissimi esponenti che non avrebbero nessun bisogno di andare al Festival, visti i numeri che fanno. Eppure ci vanno, perché resta la vetrina musicale italiana più importante.
Certo. Una vetrina che in qualche modo, per quanto se ne possa discutere, sebbene non confini l’artista, confina la canzone. Non trovi?
Credo che questo discorso valga più per il passato, in cui dovevi avere per forza il brano sanremese. Diciamo che il Festival di Sanremo era anche sinonimo di un certo stile di canzone. Oggi, più hai il brano sanremese e meno hai possibilità di andare al festival, secondo me. Cercano l’alternativa. Vogliono portare l’alternativa al grande pubblico.
Oggi è cambiato tutto rispetto a dieci anni fa, dalla composizione alla diffusione della musica. Cosa vi resta di quell’impatto nel mondo mainstream che fu motivo di svolta per voi?
Ovviamente eravamo ancora molto giovani. Siamo stati travolti da un’onda. Era difficile capire i meccanismi di quel mondo. Una cosa che ricordiamo è la differenza che faceva tutta la macchina che si muoveva attorno al Festival. Fino al mese prima suonavamo a 20 km da Verona, nei bar. Mettere piede a Sanremo dava la percezione di essere entrati in un mondo professionale. Ma all’epoca era diverso. La discografia aveva budget diversi, faceva numeri diversi. Avere un multinazionale alle spalle faceva ancora la differenza. Adesso è totalmente il contrario. Se sei indipendente, hai molte più probabilità di entrare in qualsiasi ambito che non avendo una major alle spalle. È cambiato proprio tutto rispetto a 10 anni fa, e se si pensa che sono passati solo 10 anni, vuol dire che l’evoluzione è stata molto rapida.
Inoltre, non è la prima volta che voi pubblicate un’autoproduzione.
Questo però è il primo disco a essere autoprodotto al cento per cento. Tranne il mastering, per il quale ci siamo appoggiati a uno studio di fiducia. Però tutte le registrazioni, persino la batteria e gli archi, sono state registrate e missate da noi. Anche la grafica è roba nostra.
E poi, l’avete registrato in analogico. Una risposta sonora alla velocità di quest’era?
Quando si è maniaci del suono come noi, non puoi che scegliere l’analogico. Siamo appassionati e innamorati di suoni vintage. I riferimenti con cui siamo cresciuti musicalmente, in fondo, sono tutti dischi registrati in quel modo.
Poi, è un doppio. Questo perché volevamo creare un ponte che unisse questo primo disco al secondo. Il secondo sarà molto più libero. Sarà maggiormente fedele a quello che stiamo proponendo live. Uno spettacolo molto suonato, da cui tiriamo fuori le nostre radici, soprattutto quelle blues, folk e rock. Sarà in acustico, suonato come un folk bello tirato. Diverso, ovviamente, da tutto ciò che va adesso. Ci allontanerà maggiormente dal mainstream. La strada del radiofonico, del commerciale, non vale più la pena di seguirla. Vogliamo coltivarci la nostra nicchia, suonare in club anche piccoli, avere la possibilità di farci sentire anche da chi non ci conosce o non è necessariamente nostro fan. Questo sarà il nostro percorso da qui in avanti.
Dunque, liberarsi dagli appannaggi di una vetrina è solo una questione di tempo?
Beh, sì. Stiamo vedendo che tanta gente ha un pregiudizio su di noi, il che è spiegabile. Perché purtroppo viviamo in un paese povero di curiosità musicale, dove la cultura musicale è pari a zero. Se dici Sonohra, pensano subito che sono quelli che hanno vinto Sanremo Giovani, col ciuffo biondo e le ragazzine dietro. Non si pensa che le ragazzine di allora adesso sono trentenni, e molte di queste sono madri. Si fa fatica a capire questa cosa qua. I Sonohra non hanno più le ragazzine che vanno ai loro concerti. Le adolescenti al giorno d’oggi vanno ai concerti trap. Questo è molto difficile da inculcare nella gente e la nostra scelta è dovuta sì, anche a questo. Ma anche dal fatto che alla nostra età – come se fossimo vecchi (ride) – siamo arrivati a un punto che vogliamo fare quello vogliamo.
Beh, questa è una presa di coscienza artistica, che immagino maturi di pari passo coi cambiamenti nella vita e della vita stessa. È interessante capire cosa i Sonohra stanno vivendo col lancio di questo disco, di cui si sta parlando abbastanza. Voi in dieci anni non siete stati fermi, ma l’autenticità è una ricerca, no?
Sì. Poi, ovviamente, non vogliamo sputare nel piatto in cui abbiamo mangiato. Non si fa. Dovessi tornare indietro, anche gli errori, quelli che sono dal cercare di seguire tanti progetti al cercare sempre quel successo, li rifarei. Potrei dire che si poteva gestire in maniera diversa, ma chi lo fa? Poi, il Festival di Sanremo ci ha dato la possibilità di farci sentire a chiunque, compreso magari chi ci sta intervistando. È l’etichetta che ti fa band, e quella non te la scolli di dosso nemmeno se fai un album e poi ti mascheri. Dovresti prendere ogni persona singolarmente per dirgli «guarda che so anche suonare». Non è semplice, ma si fa.
E infatti avete fatto “L’ultimo grande eroe”. Dedicato alla memoria di vostro padre, l’avete scritto in reazione a questa perdita oppure era già in cantiere?
Il disco era sicuramente già in cantiere. Poi, ha subito tutte le influenze che sono capitate nella vita, anche quelle della perdita. Nella composizione si riversa tutto. In quest’album c’è tanto di quel momento. Producendolo noi, registrandolo a casa poi, lo abbiamo vissuto molto.
Se tu lo ascoltassi senza conoscere chi lo ha scritto, con quale parola lo descriveresti?
Cantautorale, direi. Con questa parola la gente può dare un peso diverso alle parole, e magari ritrovarsi anche con le nostre.
Domanda di rito: qual è il concerto a cui i Sonohra non possono mancare?
Che ci accomuna entrambi, sono i Mumford & Sons. Dopo aver visto il concerto tre anni fa, credo che sia la mia band preferita. Ora hanno cambiato leggermente sound, ma quelli di quattro/cinque anni fa mi piacevano ancora di più.
Loro rientrano nelle influenze, suppongo. Quali sono le altre?
Il rock, ma anche il blues. Eric Clapton, per la scena blues. I Goo Goo Dolls, poi. Loro ci hanno influenzato per le accordature, le composizioni. Se vai ad analizzare “L’Amore”, l’arrangiamento ha molto in comune con la composizione dei Goo Goo Dolls. Anche i primi Bon Jovi. O gli Oasis, quando ero ragazzino. Diciamo che il brit e l’american rock ci hanno sempre influenzati. Ma anche i grandi classici.
Cantautori Italiani?
A me piace molto Niccolò Fabi. E Cesare Cremonini. Lui mi piace moltissimo. Uno dei migliori cantautori della scena italiana attuale.
Tu hai curato i testi de “L’ultimo grande eroe”. Mi domando se un brano dei Sonohra nasca dal testo o dalla musica. E quanto conti il cantare, poi.
Io scrivo in inglese su dei giri musicali che vengono molto spontanei. Poi lavoro con la parola. Sul cantare, a me piace molto. Se no avrei fatto un altro mestiere. Sono abituato a cantare le cose che scrivo, ma in passato ho anche interpretato dei brani scritti da altri. Una era “There’s a place for us”, la soundtrack de “Le Cronache di Narnia – Il viaggio del veliero”. Non è una cosa che mi fa impazzire, quella di interpretare, ma ricapiterà.
Domanda a bruciapelo: se aveste oggi l’età di quando siete diventati famosi, come ricerchereste il successo?
Guarda, all’epoca abbiamo avuto solo una botta di culo. Abbracciavamo comunque il discorso dell’autoproduzione. Oggi assolutamente faremmo quello che alla fine abbiamo sempre fatto.
Ci sono, tra le influenze, delle contaminazioni esterne alla musica?
Ce ne sono di letterarie. Ricordo di aver scritto un brano ispirato a uno dei più famosi romanzi di Gabriel Garcia Marquéz, ora mi sfugge il nome. Poi, sì. Siamo influenzati da tutto quello che capita, non solo nella vita.
Si è accennato al fatto che “L’ultimo grande eroe” preveda un secondo capitolo, che uscirà nel 2019. Cosa potete dirci rispetto al tour di questo primo capitolo e ai progetti nell’immediato futuro?
I progetti principali sono quelli di continuare a scrivere, fare anche produzioni per altri. Curare i live, ci teniamo molto. E poi la lavorazione del disco. Per i prossimi mesi non faremo che dedicarci a questo.
Abbiamo finito. Io ti ringrazio e, come di consueto, lascio all’artista l’ultima battuta. Vai Luca e dicci quello che non ci hai ancora detto.
Sperimenteremo moltissimo con le sonorità e tutto ciò che uscirà dai Sonohra, da qui in avanti, sarà più libero di quanto mai uscito finora. Non abbiamo più certi paletti. Non abbiamo più ansia da prestazione. Poi, se vivi a Roma e vuoi venire ad ascoltarci, suoniamo il 22 Febbraio al Jailbreak Live Club.