Diamo il benvenuto su Music.it a Tia Airoldi. Per rompere il ghiaccio raccontaci qualcosa di divertente o imbarazzante che ti è successo su un palco o in studio.
Diversi anni fa con la mia prima band avevamo elaborato l’idea geniale di dare fuoco ad un manichino durante l’ultima canzone del nostro set. Ci sembrava un’idea pazzesca e in effetti la prima volta era stato un successo: la gente era davvero presa bene. La seconda volta c’è stato un misunderstanding con la Protezione Civile che salendo on stage per spegnere il fuoco ha innescato una piccola fiammata di ritorno che mi è finita sulla chitarra, sulla mano e sul piede che hanno preso fuoco per qualche istante: grande impatto scenico accentuato dal fatto che i compagni di band, pur accorgendosi di ciò che stava succedendo, non hanno mai smesso di suonare e abbiamo portato a termine l’esibizione.
Parliamo di “Isn’t It Fine”. Come nasce questo brano? Cosa racconta?
Una prima struttura del brano risale a qualche anno fa ma solo alla fine del 2019 è stato portato nella sua forma definitiva. Il pezzo è stato scritto assieme al compositore Fabrizio Campanelli con cui collaboro da tempo. La sua sensibilità musicale e il suo gusto si riflettono anche nel suo lavoro come compositore di splendide colonne sonore per il cinema e la pubblicità. “Isn’t It Fine” è un brano luminoso e arioso ed è piacevole riscontrare negli ascoltatori lo stesso sentimento. Lo spot televisivo ha contribuito certamente alla diffusione della canzone verso un pubblico ampio.
“Isn’t It Fine” anticipa l’uscita del tuo primo disco in italiano. Cosa dobbiamo aspettarci da questo nuovo disco? Perché hai optato per un lavoro in italiano?
Sebbene in passato non abbia spesso trovato un feeling diretto con l’italiano, ora sono davvero motivato e curioso di lavorare sulle nuove canzoni. Mi affascina l’idea di raccontarmi musicalmente attraverso parole e mondi sonori che consideravo distanti e che invece sono molto vicini.
In un momento come questo forse serve proprio parlare di futuro; tu come pensi che sarà il futuro di “Isn’t It Fine”? E per la musica in generale?
Io sono fiducioso che la musica dal vivo non smetterà mai anche se al momento sta attraversando una crisi forse senza precedenti. Il mondo che rende possibile la musica è fatto di artisti, di tecnici e di addetti ai lavori che meritano di avere spazio e di non essere considerati come un surplus non necessario. Un mondo ipotetico privato di tutte queste componenti si tradurrebbe istantaneamente nella scomparsa di concerti, cinema, radio, televisione, teatro etc. e ne otterremmo un mondo senza stimoli emotivi verso sé stessi e verso gli altri. Un distacco impensabile. Ma la musica viva non smetterà e a questo proposito mi auguro che “Isn’t It Fine” possa continuare a essere protagonista nelle emozioni di chi l’ascolta.
Hai suonato in giro per il mondo in apertura a molti grandi artisti. Quale è stata l’esperienza che ti ha segnato maggiormente?
Ogni esperienza porta consapevolezza. Mi è capitato di vivere molto bene e molto male il rapporto con la musica ma ciò che più importa è capire che non si fa musica solo per sé stessi ma anche e soprattutto con e per gli altri: è una comunicazione, un vibrare insieme. Spesso vedere i professionisti di questo settore da vicino di restituisce la naturalezza con cui le cose si possono fare e al contempo la dedizione al proprio mestiere. Ho ancora molta strada da fare.
E per quanto riguarda la scena musicale italiana? Come ti trovi al suo interno? Cosa ti piace e cosa non ti piace?
La mia ricerca musicale ha preso spesso il via da ascolti esterofili e fuori dal contesto mainstream. Ci sono artisti splendidi italiani che usano l’inglese per le loro creazioni a cui sono molto affezionato, e penso in particolare a Bob Corn, Comaneci, Diego Deadman Potron. Sul versante indie/pop il lavoro di un’etichetta come Maciste Dischi è semplicemente incredibile e ha portato aria fresca. In generale però vorrei ascoltare qualche cosa che entri nel profondo; che emozioni sulla lunga distanza e non solo che insegua le mode del momento e questo alla musica italiana manca (fatte le debite eccezioni).
Parlaci di “In Utero”, come si è sviluppato questo progetto?
L’installazione sonora “In Utero”, viene creata con i ragazzi di Associazione Fedora che hanno da sempre la mission di fare cultura accessibile anche per persone non vedenti e non udenti. Ciò che è al centro di questo lavoro, è la libera esplorazione del luogo sonoro comune ad ogni essere umano vivente, la reale culla della vita: il grembo materno. Un’esplorazione dal di fuori al di dentro e ancora verso l’esterno, in una tripartizione che dona al ri-nascente, la possibilità di abitare il campo sonoro primigenio. La pedana sensoriale si pone come mezzo privilegiato, come trasduttore di esperienze sonore e tattili, proiettando la fruibilità dell’installazione in una dimensione interattiva anche verso quei percorsi, talvolta drammatici, della disabilità visiva e uditiva, con la speranza di trovare in momenti come questo dei con-corsi e non solamente dei per-corsi.
È un progetto incredibile.
Ciò che all’interno dell’installazione si può sentire, il “cibo sonoro” è un soundscape materno, fatto di cuore e di viscere, di voci e di soffi, di acqua e di carne, che vuol donare un momento immersivo nel quale ricontattare le primissime memorie sonore, e condurre il fruitore alla ricerca delle ragioni d’essere della propria sonorità e musicalità come abitante ed eterno scopritore di quel mondo “esterno” dopo che è stato abitante del mondo “interno”. Stiamo lavorando affinché questa esperienza si possa ripetere in molti luoghi diversi, in tutta Italia.
Ultima domanda, il classico “fatti una domanda e datti una risposta”. Che puoi dirci?
Cosa chiedi alla musica?
Che mi faccia saltare e commuovere e che sia il mezzo per non sentirsi mai soli.