Dopo aver convogliato su di sé i consensi unanimi della critica e della platea al suo passaggio nel concorso veneziano vincendo il Premio alla Miglior Sceneggiatura e potendo contare anche sul fresco Golden Globe per il Miglior Film Drammatico, “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” esce finalmente nelle sale italiane per ribadire la sua natura riuscita, ascrivibile al miglior esempio di cinema americano del nuovo millennio. Martin McDonagh già col bellissimo “In Bruges” aveva sfoggiato talento e capacità narrativa, ma con questo suo terzo lungometraggio il regista anglosassone allunga ulteriormente il raggio della riflessione del proprio cinema, solo apparentemente circoscritto alla trama.
“Tre manifesti a Ebbing, Missouri” esce finalmente nelle sale italiane per ribadire la sua natura riuscita.
La protesta a mezzo pubblicitario di una madre, interpretata magistralmente da Frances McDormand, supera il luogo dell’ambientazione e il lutto personale per assumere le sembianze di un enorme indice puntato sull’intera provincia americana, attuale e complessa. L’immaginaria Ebbing è il riflesso microscopico dell’America che ha votato Donald Trump, dell’umanità ignorante e gretta, della polizia razzista, del crimine violento perpetrato e impunito. Ognuno di questi aspetti, sociologicamente ampissimi, si riflette nei personaggi, che ne diventano prototipi. Oltre alla madre costretta ad invocare attenzione, la triade emblematica conta il capo della polizia locale (Woody Harrelson) malato di cancro, e l’agente violento e alcolista (Sam Rockwell, dalla cui tasca già si intravede – meritatamente – un Oscar).
“Tre manifesti a Ebbing, Missouri” si chiude quando il poliziotto redento imbraccia un fucile e spegne la luce.
Il primo, accusato direttamente da una richiesta di giustizia domandata, e per questo non perseguibile, è il principale referente del dolore materno, fino a farlo estremisticamente proprio. Il secondo è un tipo tarantiniano, volgare e ottuso, capace di sfumare dalla repulsione al tifo agli occhi dello spettatore, complice un riscatto personale concesso da uno script blindato nella sua perfezione. Lo humor coeniano migliore interrompe con cadenza perfetta le scene più drammatiche, diluendo l’emozione e il sangue di una storia cupa e senza speranza.
Proprio alla luce delle abili fusioni che si susseguono per tutta la pellicola stride il finale da parrocchia americana, speranzoso e rasserenato, lasciato aperto nel modo peggiore mentre la musica si alza. “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” si chiude quando, dopo un bacio dato a una madre snaturata e castrante addormentata in poltrona, il poliziotto redento imbraccia un fucile e spegne la luce, per poi imbarcarsi in una missione punitiva. Il film non finisce esattamente così, ma non c’è da curarsene troppo.