Benvenuto TUM! Poiché non ci piacciono le formalità, inizia a raccontarci qualcosa di te e della tua musica che non troveremmo nelle biografie ufficiali!
Ciao, sono TUM, ho 36 anni, non faccio il musicista di lavoro e suono solo con i miei amici, quasi mai da solo. Ho giocato a basket da 5 a 19 anni, avevo quasi sempre la maglia numero 9 perché da grande volevo essere come Sergio Angeli, l’ala piccola del Vigevano Basket. Mio papà si chiama Felice e siccome di cognome ci chiamiamo Vecchio, può essere confuso con un generico anziano buontempone, e invece ha tutta la sua personalità. Non ho mai imparato a fare la spesa e per questo non compro e non mangio quasi mai la frutta. Ieri sono entrato per sbaglio in una libreria perché avevo freddo e ho visto che CiccioGamer ha scritto la sua autobiografia. E allora penso che forse quello che ti sto raccontando a suo modo può essere interessante per qualcuno. Spero non ai lettori di CiccioGamer, comunque.
La tua carriera è iniziata con i Pocket Chestnut, band che ha condiviso i palchi con moltissimi artisti internazionali. Da cosa nasce l’esigenza di presentarsi come solista e non più come frontman?
Ho iniziato a suonare a 14 anni con il mio amico Simone a Mortara, dove vivevo. La mia prima band si chiamava Acidi Nucleici e la prima canzone che ho scritto era un gioco di parole meschino, dal titolo “Libera-Mente”. So ancora il ritornello ma non ve lo canterei nemmeno sotto tortura. I Pocket Chestnut sono una costola di una delle mia band preferite: i Kech. Li ho seguiti dal 2003 al 2007, anche all’estero, siamo diventati amici, famiglia. Poi abbiamo fondato i Pocket Chestnut. Abbiamo suonato 7 anni insieme. Scrivo davvero tante canzoni. Forse i ragazzi erano stanchi di essere subissati dalle mie mail. Ho preso 40 demo che avevo sull’iPhone e le ho date in pasto a un branco di lupi affamati. Per oltre un anno le hanno rosicchiate fino all’osso. Ed ecco TUM, non il mio disco solista ma un percorso di musica con altre persone.
Il tuo singolo “DarKer” è stato scritto a Mumbai. Come mostra anche il videoclip, è una città che certamente ti ha lasciato tanto. Raccontaci il tuo viaggio.
Un posto pazzesco, sono stato lì per tre mesi per motivi di lavoro e giravo spesso nel weekend. Mumbai ha 18 volte la popolazione di Milano. Ho letto un libro bellissimo di Pierpaolo Di Nardo che si chiama “Maldindia” che in una frase può riassumere una sensazione che mi ha impressionato:
«Sembra incredibile ma in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo gli indiani vanno, hanno sempre qualcosa da fare, sempre una meta da raggiungere. Gli indiani si spostano in continuazione e qualsiasi motivo è buono per andare. (…) L’India è in continuo movimento, il che spiega il suo continuo divenire, mutare, trasformarsi».
Domanda antipatica ma necessaria. Come mai hai deciso di cantare le tue canzoni in inglese? È una semplice questione di musicalità della parola, o la voglia di non legarti a nessun confine?
Ho sempre scritto in inglese, come fosse una sorta di filtro tra la mia vita e le mie canzoni. Loro, in fondo, provano a raccontare per immagini quello che mi accade e come mi fa sentire nel momento in cui mi accade. L’inglese mi limita molto perché non è la mia lingua e per quanto lo studio e lo coltivo è solo un codice per proteggermi un pochino. Resta indubbio che tutta la musica figa a cui mi ispiro arriva dall’America o dall’Inghilterra. Penso ai Giant Sand o ai Calexico. In Italia di cosa potrebbero cantare? Del Molise? Potrebbe anche essere un’idea: Giant Molise o Calexichise.
La tua musica guarda ad autori internazionali come Bob Dylan, Nick Cave, Eels. Artisti e personaggi che oggi sono lontanissimi dalla discografia italiana contemporanea. Come avvicinarsi allora a un pubblico italiano e viceversa?
Mission Impossible: non mi faccio venire il fegato amaro. Continuo a suonare quello che mi piace e non ho alcuna velleità di riempire i locali come i miei colleghi che cantano in italiano. Funzionano l’itpop e la trap, e se mi piacessero questi generi non avrei problemi a suonarli. E invece non fanno per me. A me piacciono i Motorpsycho di “Blissard”, non mi schiodo facilmente.
Ci sono artisti e band italiani che però hanno contribuito alla tua formazione e che vale la pena seguire?
Mi è piaciuto tantissimo Nicolò Fabi con “Una Somma di Piccole Cose”. Suonava con l’impronta di José González e i Junip con dei testi da brivido, un disco che mi ha ribaltato per quanto vero. Mi sono sempre piaciuti anche gli Ex-Otago, anche se non c’entrano molto con quello che suono. Se devo essere sincero prediligo a ogni modo i gruppi italiani che cantano in inglese. Abbiamo talenti con la A maiuscola che girano il mondo facendosi onore. Prendi i Julie’s Haircut degli ultimi dischi: sono musicalmente pazzeschi. Li ho visti tre volte ed ero in estasi.
Cosa ti aspetti da questa nuova avventura da solista? C’è un tour in programma per TUM?
Mi aspetto di continuare a divertirmi. Dopo “DarKer” usciranno altri tre singoli e poi un disco. L’anno prossimo con il disco fuori intensificheremo anche i live. Se vogliamo fare le cose fatte bene, riusciamo a farne una sola alla volta.
TUM, ti salutiamo lasciandoti l’ultima domanda come uno spazio vuoto. Riempilo con quello che vuoi!
Ti lascio una ricetta turca che ho imparato in India a casa della signora Sunanda Gupta ad Alibag.