Non siamo tanto lontani dal vero nell’affermare che il cinema giapponese contemporaneo risponde a un nome solo. È quello di Hirokazu Kore’eda, cinquantaseienne regista di Tokyo, che solo negli ultimi dieci anni ha realizzato ben otto lungometraggi, tutti selezionati per concorrere nei principali festival cinematografici. Opere diverse accomunate da un denominatore bipolare fatto di tradizione nipponica e tematiche apolidi. Nel cinema di Hirokazu Kore’eda convivono due anime che non si fronteggiano ma preferiscono armonizzarsi, così da potenziarne il raggio d’interesse e tradurre in una lingua comune dal fascino occidentale situazioni e sensazioni tipicamente orientali. Un connubio di grande efficacia e di facile appeal per le giurie festivaliere. “Un affare di famiglia” è stato premiato con la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes.
Nel cinema di Hirokazu Kore’eda convivono due anime che non si fronteggiano ma preferiscono armonizzarsi, potenziandone il raggio d’interesse.
Al ritorno dall’ennesimo taccheggio, Osamu (Lily Franky, uno dei papà di “Father and Son del 2013) e suo figlio raccolgono dalla strada una bambina che sembra abbandonata a se stessa. Dapprima i tanti membri della famiglia di Osamu (cognata, madre, e figli) sono riluttanti a ospitare la bambina per la notte. Ma la moglie dell’uomo (Sakura Ando) accetta di prendersene cura quando capisce che i suoi genitori la stanno maltrattando. Nonostante la loro povertà e la sopravvivenza stentata con le piccole rapine che completano i loro magri stipendi, i membri di questa famiglia sembrano vivere felicemente. Fino ad un incidente che rivelerà i loro più terribili segreti.
“Un affare di famiglia” è un progetto interamente costruito su un assunto sociologico preciso: “Solo i crimini ci tengono insieme”.
Hirokazu Kore’eda costruisce il suo progetto su un assunto sociologico preciso: “Solo i crimini ci tengono insieme”. Un’idea che non si rigira né si compiace in velleità autoriali infondate, ma piuttosto affonda in una realtà precisa e documentata del Giappone moderno, dove le frodi all’assicurazione pensionistica e i genitori che costringono i loro figli a rubare sono severamente puniti. Non dubitando nella necessità di fronteggiare questi atti, il regista preferisce interrogarsi e interrogarci sulle ragioni di tanta durezza per suddetti piccoli furti a fronte dell’impunità spesso riservata a crimini molto più gravi.
Hirokazu Kore’eda non punta la macchina da presa sul fondo della scala sociale, ma intende gettare una luce diversa su una famiglia disfunzionale.
“Un affare di famiglia” non si presenta come un trattato sociologico in immagini, ma si offre allo sguardo come la storia di una famiglia, come quella di un uomo che assume il proprio ruolo paterno e, inoltre, come la storia di iniziazione di un giovane ragazzo. Hirokazu Kore’eda non punta la macchina da presa sul fondo della scala sociale, ma intende gettare una luce diversa su una famiglia disfunzionale. A differenza dei suoi film precedenti, l’approccio intimista assume una quota minoritaria a beneficio di una componente socio-realista di grande coerenza.
Nella realtà cinematografica si respira sempre una poesia fiabesca strutturata dai candori della fotografia e dalla musica originale di Haruomi Hosono.
Si tratta pur sempre di toni delicatissimi, propri dell’autore e del suo cinema, semplicemente dosati in proporzioni diverse, tagliati a misura della realtà ripresa. Hirokazu Kore’eda sospende per due ore la comprensione certa dei fatti e dei ruoli che i tanti personaggi in campo ricoprono. Gli spazi ripuliti da arredi invadenti, i movimenti dimessi e la recitazione misurata sono funzionali alla scoperta del dramma. Nella realtà cinematografica si respira sempre una poesia fiabesca strutturata dai candori della fotografia e dalla musica originale di Haruomi Hosono. Sono contrasti ambiziosi ma di grande resa, tanto da rendere apprezzabile una dimensione fantasmatica che finisce per giustificare qualche raccordo frettoloso della trama. Il film non accetta e non impone punti di chiusura, né risolutivi né ideologici, ma amplia il campo visivo dell’osservatore costringendolo a rimuginare – e non per forza a ricredersi – sui confini tra formalismi borghesi, disagi e ipocrisie di classe.