È un piacere poter intervistare oggi Willie Peyote. Per rompere il ghiaccio iniziamo con il nostro rituale. Raccontami un momento imbarazzante che ricordi della tua carriera, magari un fatto accaduto durante un live.
Ma guarda, di momenti imbarazzanti ce ne sono stati tantissimi, ma per fortuna non sono mai del tutto lucido e quindi li dimentico (rirde). Comunque una volta, nel primo gruppo rap nel quale suonavo, durante un concerto il nostro dj ha fatto i beat con un lettore DVD. Era accovacciato e schiacciava flashforward per mandare avanti. Fortunatamente quel periodo è finito. Una volta addirittura ho dovuto pagare io per suonare ad un mio concerto. Erano altri tempi, avevo 16 anni e facevamo rap, ma è stata una situazione assurda quella di dover pagare l’ingresso.
Come nasce Willie Peyote in qualità di artista? Ricordi il momento esatto in cui hai deciso di percorrere questa strada?
Mi ricordo perfettamente che intorno ai 14 o 15 anni, mio padre suonava e io seguivo il tour facendo il roadie, vendendo i cd e minchiate collaterali. Facevo anche cose molto noiose come ascoltare il soundcheck della cassa e del rullante, facevamo viaggi in furgone e a me piaceva. Lì ho capito che quella sarebbe stata la mia strada. Non mi annoiavo, ma mi rendevo conto che per tutto il resto del mondo quelle cose sarebbero state noiose, eppure io non mi annoiavo.
Ascoltandoti, e potrei dire una stupidaggine, almeno a livello di melodia vocale mi è sembrato di percepire qualcosa di vagamente simile ai primi Articolo 31.
Ma guarda, inconsciamente è possibile, in effetti fu il primo gruppo di rap italiano che veramente mi colpì. Quando facevo le medie ricordo perfettamente che “Così com’è” fu un album totalmente rivoluzionario, il mio primo approccio al rap in italiano. Quindi non nascondo che potrebbero esserci influenze da parte loro. Ma non me ne sono reso conto! Diciamo che non l’ho fatto a posta.
Altri artisti che invece segui? Che si possano definire per te come delle colonne portanti?
Anche questo lo ricordo perfettamente. “Turbe Giovanili” di Fabri Fibra è stato il disco in italiano con il quale ho ufficialmente deciso di fare rap. Quel disco in qualche modo mi ha insegnato ha scrivere. L’ho mangiato per sei mesi ascoltandolo tutto il giorno e tutta la notte, lasciando il walkman acceso in play.
Parlando di Fabri Fibra mi obblighi a chiedertelo. Al momento cosa ne pensi?
Al momento la strofa nel disco di Salmo è figa, il resto no.
Tornando a prima, mi raccontavi di come la tua carriera musicale sia iniziata con tuo padre. D’altra parte con Zibba hai scritto un pezzo intitolato “Tua Madre”, glissando il cliché dell’insulto e trasformandola in una canzone quasi romantica. Qual è il rapporto che hai con la tua famiglia?
Sotto l’aspetto musicale e il perseguire i miei obbiettivi, devo dire che i miei sono sempre stati molto di supporto. Anche grazie al fatto che mio padre faceva il musicista. Ma anche mia madre mi ha sempre supportato. Non sono il tipo di genitori che dicono “Devi avere un lavoro vero… Devi fare ingegneria”, nulla di tutto questo. Ma come puoi immaginare in ogni famiglia ci sono delle magagne, quindi il rapporto è stato conflittuale, come per tutti d’altronde. Io ho anche ricevuto un’educazione molto religiosa nell’infanzia e nell’adolescenza, e l’ho un po’ subita. In particolare nella figura di mia madre. Era lei che impartiva quel tipo di educazione, ma con il tempo ho superato anche quello. Da quando sono andato via di casa abbiamo un bel rapporto (ride).
Parlando del tuo rap, che è molto singolare, quasi cantautorale, dimmi come nasce e come hai deciso di svilupparlo.
Fortunatamente non ho mai lavorato da solo e tutto quello che c’è stato è successo perché ho collaborato con altre persone. Non ho mai fatto nulla in solitaria, quindi non potrei risponderti solo io, perché è il risultato della coesione e del lavoro di tutti. Ovviamente non ti nascondo che tutto quello che ho ascoltato e che mi ha colpito ho cercato di rielaborarlo. Ci sono i cantautori, i Blur, i Nirvana in quello che faccio, semplicemente perché è inevitabile che tutto quello che recepisci cerchi di rielaborarlo. Credo che chi abbia lavorato con me abbia fatto altrettanto con le proprie influenze, e questo è il risultato.
Parliamo di “Sindrome di Tôret”. Il tuo quarto album è uscito ormai da tempo ma vorrei saperne di più, partendo dal nome e specialmente come hai legato la sindrome di Tourette alla libertà di espressione.
In realtà il disco affronta il tema della libertà di espressione, ma specialmente quello dell’incontinenza verbale. L’incapacità di stare zitti e il fatto che tutto dobbiamo dire la nostra per forza. Quindi ho giocato sul doppio senso della sindrome di Tourette e su un gioco di parole legato a Torino. In alcuni casi, le persone affette da questa sindrome non riescono a controllare le proprie espressioni, sono affette da tic verbali, parlano senza potersi fermare. Le fontane torinesi con la testa di toro si chiamano toret, e mi sentivo di omaggiare così la mia città.
Sei un’artista senza particolari peli sulla lingua. Questo genere di comunicazione ti ha mai creato problemi in ambito musicale o privato?
Paradossalmente mi ha creato più problemi nella vita che nell’arte. Nella musica c’è più libertà di espressione e di manovra. Ho avuto molti problemi sul lavoro perché non sto zitto e devo dire sempre la mia, di conseguenza ti direi: artisticamente no, lo faccio proprio perché ho la libertà di farlo. Invece sul posto di lavoro, con il capo, spesso mi ha creato non pochi problemi.
Ho notato che rispetto al classico personaggio rapper, Willie Peyote è meno aggressivo, ma molto più tagliente. È voluto oppure scrivi così, di getto?
Io sostanzialmente scrivo come parlo. Penso che l’ironia e il sarcasmo siano molto più pungenti dell’aggressività. Non mi piace essere aggressivo nella comunicazione, preferisco essere stronzo e fastidioso ma non aggressivo. Inoltre sai, trovi sempre quello che cerchi, nella vita vera se sei un rissoso prima o poi trovi qualcuno che te le da, e così anche nella musica. Can che abbaia non morde, tutto sommato qualcuno più grosso di te lo trovi e io non ho tutta questa voglia di essere pestato, quindi va bene così.
Parlando di attualità, cosa pensi dei social? Come credi stiano influenzando il mondo moderno, specialmente quello musicale?
Secondo me creano non poche manie di protagonismo, molto più diffuse rispetto a quanto non lo siano già. Però ti dico, sono un mezzo, come le piattaforme di streaming. Un ottimo mezzo per diffondere la propria musica, quindi io cerco di utilizzarli per il buono che possono darmi, e capire come influenzino la comunicazione complessiva, tema affrontato anche nel disco. Non tutto è positivo, ma come qualunque mezzo dovremmo essere educati all’uso di questi. Come per la macchina, prima di guidarla devi fare un corso e così si dovrebbe fare con i social. Magari non tenuto da Salvatore Aranzulla, ma quel minimo che basti per capire come cambia la comunicazione.
Che ne pensi dei leoni da tastiera?
Parlare dietro un computer ti deresponsabilizza. È tutto molto più facile e perdi il contatto con la realtà. Se questa cosa però passa alla vita vera e inizi a comportarti come sui social, allora c’è un cortocircuito. Oggi avvertiamo proprio questo tipo di disagio. È come se avessero aperto le gabbie e tutti parlassero in maniera un po’ troppo aggressiva. Questo si riflette su tutto quanto, a partire dalla politica in giù.
Rimanendo in tema attualità, qual è il tuo rapporto con i talent?
Ho sempre detto che sono abbastanza contrario. Sono un bel programma televisivo, ma non andrebbero vissuti come modo per entrare a far parte del mondo della musica. I numeri supportano questa tesi. Negli ultimi dieci anni, di tutti i talent, forse sono uscite tre persone che sono durate nel tempo. Degli altri ci siamo già dimenticati. Quindi io non andrei mai in un talent, non credo di voler partecipare in nessun modo. Mi è stato chiesto, ma non ho voluto perché credo nel valore della coerenza.
Non farai come altri artisti che li hanno criticati, e poi dopo qualche anno son finiti a fare i giurati, vero?
Guarda, tra dieci anni non so che testa avrò. Ma sono cresciuto pensando che la coerenza sia un valore. Difficilmente penso che farò qualcosa del genere.
Torniamo a te. Come sono andati i tour che hai fatto fino ad oggi? Raccontameli dalla prospettiva di chi li vive sul palco.
Ormai sono al terzo. Sta andando bene a livello di numeri, ma non so ancora a livello di vendite. È stato il primo tour con la band al completo sul palco. Un bellissimo tour! Un sogno che avevo era quello di fare rap con una live band, e ci sono riuscito. È un gruppo dal quale mi sento rappresentato e del quale sono orgoglioso. Ritengo che i musicisti che suonano con me siano tra i migliori sulla piazza nazionale e quindi sono fortunato e onorato. Sono contento che loro siano contenti di suonare con me, questo è quello che ho avvertito.
Il rapporto con il pubblico invece? Come ti trovi con i fan sia nei live che nel privato?
Finché si tratta di live mi piace molto. Mi piace far divertire le persone e mi piace giocare con il pubblico dal palco. Cerco di provocarli e di dargli fastidio, come avrebbe fatto Giorgio Gaber qualche anno fa. Quando però il rapporto supera il contesto del live è diverso, quindi gli aspetti social come: essere fermati per strada, chiedere una foto, chiedere un audio da mandare al fidanzato… Dai miei 18 anni in su queste cose ho cominciato ad odiarle profondamente perché, per quanto poi le foto le faccio, in quanto credo sia giusto dare indietro un po’ del mio tempo, lo trovo un discorso un po’ del cazzo, ecco. Non so quanto lo fai perché l’artista ti piaccia o perché vai su con i like condividendo la foto. Mi sembra assurdo.
Quindi non si tratta del discorso dell’autografo o della foto, quanto usarle come mezzo personale per accaparrarsi un po’ di popolarità?
Sì, esatto. Quando avevo 16 anni anche io ho chiesto autografi. A 20 non l’ho più fatto, a 30 mi sembra assurdo. Quando arriva un ragazzo di 35 anni a chiedermi la foto, lo trovo strano. Poi alcuni lo fanno perché ti stimano, altri perché magari poi scopano. Inoltre spesso viene a mancare l’educazione. Moltissime persone sono maleducate nel chiedere una foto e mi dà molto fastidio, cosa sempre più frequente. Più si allarga il pubblico e più prima o poi arriva qualcuno che avresti avuto voglia di non conoscere.
Capitano anche persone invadenti?
Beh, mi capita di avere il boccone in bocca e qualcuno arriva e mi chiede una foto. Gli rispondi “Guarda, forse ora non è il momento” e quello risponde “Ma a me non me ne frega un cazzo”. Non è successo solo una volta. Spesso rispondo con molta educazione ad esempio dicendo: “Non è il momento, sto discutendo con la mia ragazza, quindi se puoi evitare…” e mi sento rispondere “Sì, ma te la tiri troppo”. Quando si supera quella soglia non andiamo più d’accordo.
Progetti per il futuro? Hai qualcosa in mente o sei totalmente concentrato sul tour?
Sto iniziando a lavorare e pensare al nuovo disco, ma è ancora un po’ prematuro parlarne. Voglio farne un altro e con le meravigliose persone che ho attorno abbiamo anche qualche idea collaterale, che riguarda altre forme artistiche. Al momento però siamo molto concentrati sul tour e non potrei dirti qualcosa di più preciso. Sicuramente faremo un altro disco e sarà più bello del precedente! Magari non andrà meglio, ma vogliamo che sia ancor più bello.
Un consiglio che daresti a ragazzi più giovani che vogliono intraprendere la strada dei musicisti?
Mi viene sempre in mente, in questi casi, una citazione di un autore che ho sempre amato, che è Charles Bukowski, che, quando qualcuno gli chiedeva un consiglio da dare a chi iniziava a scrivere, diceva sempre: “Non iniziate, c’è una sacco di gente nel mondo che scrive già male, non ne serve un altro”. Battute a parte, non iniziate a farlo se non ne sentite davvero la necessità. Se inizi a fare musica, così come inizi a giocare a pallone solo perché speri di diventare ricco e famoso e di scopare un sacco, lo fai per i motivi sbagliati. L’arte e lo sport richiedono una dedizione superiore e puoi reggere il colpo solo se davvero non puoi farne a meno. Senza la giusta dedizione è inutile provarci.
A bruciapelo: qual è la canzone che non vorresti mai aver scritto?
Credo tutte le canzoni di Ligabue!
Quella che invece vorresti aver scritto?
“If i ever feel better” dei Phoenix, senza dubbio.
Caro Willie Peyote, è stato davvero un piacere e abbiamo finto. Saluta i nostri lettori, i tuoi fan e chi leggerà quest’intervista come vuoi. A presto!
Ringrazio tutte le persone che stanno dimostrando il calore che mi dimostrano, e tutti quelli che mi mandano messaggi ringraziandomi, cosa che trovo assurda quando sono io che dovrei ringraziare loro. Tutti quelli che trovano valore nelle cose che faccio, perché quando ho iniziato non mi aspettavo sarebbe successo. Il mio unico obbiettivo è quello di essere all’altezza delle aspettative e cercherò di non deludere nessuno!
Willie Peyote – L’Effetto Sbagliato (prod. Frank Sativa)
Willie Peyote – L’Effetto Sbagliato (prod.