Il volo verso la libertà ad ali spiegate di LADY BIRD di GRETA GERWING
Una scena di "Lady Bird".
Una scena di "Lady Bird".

Il volo verso la libertà ad ali spiegate di LADY BIRD di GRETA GERWING

Ognuno accetta ciò che gli capita in sorte e se ne fa una ragione. Non Lady Bird, al secolo Christine McPherson, adolescente qualunque di Sacramento, figlia del proletariato condannata a un futuro che non ammetterebbe eccezioni. Eppure Lady Bird sceglie per sé: odia la sua città e il nulla che vi accade, odia il suo nome e ancora di più odia il destino che la sua condizione di nascita le proietta davanti. Esordio registico in solitaria questo di Greta Gerwing, in un film che esorbita il solito percorso di formazione. Interpretata efficacemente da Saoirse Ronan (pronuncia “sà/sciés”, imparate a farlo perché si tratta di una giovane attrice che ha già all’attivo ruoli di peso – vedi “Espiazione” (2007) e “Amabili resti” (2008) – e che farà ancora parlare di sé), la protagonista vive l’ultimo anno di liceo come il preludio di una rinascita. Ma rinascere è un verbo doppio: la conquista implica la rinuncia, atti liminali di due persone gemelle poste schiena contro schiena.

Lady Bird guarda avanti, fino a New York, meta universitaria che condensa i sogni di libertà e di possibilità che i suoi diciassette anni le negano, ma nel farlo non calpesta il proprio presente fatto di amicizie superficiali, banali riti di passaggio e battesimi sessuali. Christine prova tutto quello che la quotidianità le offre e intanto progetta la sua nuova identità. La finestra narrativa su questo scatto finale dell’adolescenza è offerta dallo scontro generazionale madre-figlia scandito in modo credibile e degno. Marion (Laurie Matcalf), la madre di Christine, è un ostacolo propositivo per sua figlia. La donna pone continuamente limiti ai programmi della ragazza, trincerandosi dietro motivazioni economiche e crudi bagni di realtà ma, così facendo, diventa agli occhi di Lady Bird il muro da superare, la briglia da cui divincolarsi, lo specchio in cui non rivedersi più.

La Lady Bird di Greta Gerwing sceglie per sé: odia la sua città e il nulla che vi accade, odia il suo nome e ancora di più odia il suo destino.

La regista, scegliendo uno stile dimesso e allineato al cinema indipendente più scarno ed efficace, allontana il film dalla cittadinanza americana e gli fa conquistare una portata cosmopolita, sostenendola unicamente con la storia raccontata e l’emozione comunicata. Appare difficile non rivedersi in un gesto, in un poster appeso o in quel desiderio di affrancarsi fieri fuori dalla gabbia provinciale. A questa riuscita presa spettatoriale contribuisce l’atmosfera nostalgica effusa dall’ambientazione temporale. Greta Gerwing elude lo sguardo attuale, 2.0, sugli adolescenti, portando indietro il racconto fino ai primi anni duemila per avere la possibilità di guardare i ragazzi in faccia, senza messaggi né chat, per concedersi il calore dell’empatia, della delusione e del pianto sincero.

Lady Bird guarda indietro e alla fine una telefonata avrà il peso della consapevolezza: quello che hai lasciato è quello che sei e quello che sei un giorno ti mancherà.