DIANE KRUGER affronta il terrorismo bianco nell'oscurità OLTRE LA NOTTE
Diane Kruger in "Oltre la notte".
Diane Kruger in "Oltre la notte".

DIANE KRUGER affronta il terrorismo bianco nell’oscurità OLTRE LA NOTTE

Cinema che nasce dall’urgenza del presente ma che evita di banalizzarsi con accuse a senso unico, facendo luce su forme di terrore sociale ugualmente fondamentaliste ma assurdamente occultate, al fine di ampliare le fila delle responsabilità di cultura e di specie (umana). Potrebbe essere la sinossi di una speranza, e alla fine rimane tale, non inverandosi nell’esito di “Oltre la notte”, l’ultimo film di Fatih Akin. Il regista tedesco di origine turca attinge a due fonti, quella emotiva del presente e quella personale del passato, per costruire una storia di lutto, (in)giustizia e vendetta che vede protagonista Katja (Diane Kruger), madre e moglie che vive ad Amburgo e che un giorno all’improvviso – dal niente come recita il titolo originale tedesco (“Aus dem Nichts”) –  perde marito turco, appena uscito di prigione, e figlioletto in un attentato dell’estrema destra tedesca.

Pur non volendo compiere un’operazione di macelleria testuale, prendendo dal corpo del film solo i pezzi buoni e scartando il resto, svalutando la complessità dell’opera a fronte di parti più o meno riuscite, di temi complessi, ora centrati e pianamente degni, ora fallati da un trattamento di poco spessore, non ci si può non rammaricare del fatto che il film si smarrisca a più riprese. L’opera di Fatih Akin, tripartita nella narrazione, finisce per percorrere, anche negli intenti, molteplici strade di cui solo poche con uscita sicura, la maggioranza, invece sono interrotte da insidie e svincoli discorsivi non necessari.

“Oltre la notte” potrebbe avere la sinossi di una speranza. E alla fine rimane tale, non inverandosi nell’esito del film di Fatih Akin.

Fatih Akin non è un regista riconoscibile per stile e qui lo conferma, mescolando retorica filmica in un pot-pouri di zoom e flashback, perciò l’attenzione è per forza di cose puntata sul senso della narrazione. Dispiace non poco allora che la smania di dire troppo schiacci all’angolo il cuore pulsante del film, fatto fondamentalmente di due sostanze: da un lato l’interpretazione devota di Diane Kruger, ammirevole nello sfumare dalla rabbia alla disperazione e premiata a Cannes come miglior interprete – premio meritato ma quantomeno scontato visto il livello piatto dello scorso concorso della Croisette – e dall’altro la volontà comunque sincera di ribaltare la questione del terrorismo indagandone aspetti affatto noti.

Tuttavia, proprio quest’ultimo merito finisce per farsi difetto e gravare sul giudizio, poiché quel coraggio di dire qualcosa di diverso si affievolisce proprio nel momento in cui si dovrebbe alzare la voce per sostenere fieramente la propria tesi, e invece il regista si limita a sussurrare che, al di là del terrorismo monocolore che le tragedie recenti ci inculcano, ci sono ombre nerissime nelle pieghe dell’odio umano – bianco, principalmente – laddove la religione spesso è solo un alibi ipocrita che raccontiamo a noi stessi. Chiunque rifugga populismi e provinciali semplificazione è già cosciente di questa complessità di fondo, dunque spera che il cinema aggiunga risposte anziché sottolineature.