FOXTROT, LA DANZA DEL DESTINO conferma il grande talento di SAMUEL MAOZ
Una scena di "Foxtrot".
Una scena di "Foxtrot".

FOXTROT, LA DANZA DEL DESTINO conferma il grande talento di SAMUEL MAOZ

La scorsa estate lo si attendeva a Venezia come uno dei nomi di punta, nel passaggio da non-più sconosciuto a voce-negli-annali per aver realizzato quel piccolo gioiello intitolato “Lebanon” (2009), meritorio Leone d’oro. Dopo otto anni, Samuel Maoz si era ripresentato al Lido con un’opera che sulla carta faceva intravedere lo stesso sfondo mimetico del suo film precedente, senza leggervi per questo il timore della ripetizione ma, al contrario, il solco di un’autorialità già ben tracciato e che avrebbe meritato anche in questo caso il massimo premio veneziano, ma si era dovuto accontentare – sì, accontentare – del Gran Premio della Giuria.

Nel caso di Samuel Maoz non si tratta mai solo di cinema ma di bisogno di cinema: la macchina da presa è un’appendice esistenziale, un’estroflessione personale, la trasposizione di un passato, conosciuto non per sentito dire ma vissuto dall’interno e che trova la sua massima resa sullo schermo. Come dall’abitacolo di quel carrarmato (il primo a invadere il Libano nel 1982), i personalismi del regista israeliano esplodono dai ricordi soggettivi per formalizzarsi in immagini puramente cinematografiche. Il foxtrot è una danza, ti fa muovere in tutte le direzioni e ti riconduce al punto di partenza.

Nel caso di Samuel Maoz non si tratta mai solo di cinema ma di bisogno di cinema: la macchina da presa è un’appendice esistenziale.

Da questo modello coreografico Samuel Maoz parte (o arriva) per costruire un’opera perfetta, geometricamente tripartita, percorribile in un andirivieni semantico magnificamente contraddittorio. Malgrado l’ambientazione serrata e la temporalità scandita, “Foxtrot” è un film senza pareti, espulso dagli interni borghesi del primo e dell’ultimo atto e sperduto nel desertico e allucinato segmento centrale. Il regista sovrappone il tempo e gli spazi accostando con soluzione di continuità solo narrativa la comunicazione di un fatto al suo antefatto e, infine, al suo beffardo epilogo. Non occorre aggiungere molto alla trama, non per timorosi spoiler ma per sottolineare la sapienza filmica nel trascendere la sceneggiatura (anche se di ferro) e nello sganciarsi da sinossi bollanti e stellette riduttive.

“Foxtrot” è una tragedia contemporanea accorta che senza sovrastrutture retoriche scarnifica le ragioni della Guerra – e non di una guerra – affidando alle sue conseguenze private, singole ma universali, la sua insensatezza. A differenza del film precedente qui non siamo in mezzo alle bombe, eppure la voracità bellica raggiunge la vita e la fa esplodere dall’interno, subito o lentamente, generando un dolore solitario e collettivo che non grida ma conduce alla morte in silenzio.

In “Foxtrot” è secondario riallineare la cronologia ma è doveroso soffermarsi sull’inutilità di certe condizioni.

Il destino, che fa capolino nel didascalico sottotitolo italiano, non trova posto nel film, piuttosto la responsabilità fatale è personale, sparata da una macchina divoratrice che sparge la colpa su tutti e non su tutto. Il conflitto ha una natura umana, civile o militare, sia che esso esiti da un “prima” sia che esso inneschi un “dopo”. La cinepresa indaga senza partecipazione l’annientamento emotivo di una famiglia e l’alienazione di un gruppo di commilitoni bloccati in un avamposto del nulla in mezzo al niente, e così facendo ci allontana dalla partecipazione emotiva per indurci a privilegiare la ragione, necessaria per comprendere il lato esiziale del racconto.

In “Foxtrot” è secondario riallineare la cronologia ma è doveroso soffermarsi sull’inutilità di certe condizioni incapaci di ravvedersi. La logica militare appare più ridicola di un passaggio a livello nel deserto da cui transitano solo cammelli, e più stupidamente fiera di un passo a due con un kalashnikov; eppure il ridicolo e lo stupido sacrificano ragazzi, li nutrono di carne in scatola facendoli sprofondare letteralmente nel fango, e con essi lacerano padri, madri e cani. La regia disegna gli spazi senza ansie, consapevole che non c’è fretta perché non c’è rimedio, quindi può concedersi in tutto il suo meglio, esibendo carrelli rotondi e panoramiche rette, primi piani e totali, lasciandoci una sinestesia immagini-racconto esemplare che dona rigorosa bellezza alla follia della guerra.