Stupirsi ancora davanti a un’opera shakespeariana senza trasfiguranti riscritture e altre superfetazioni: fatto. A vedere in cartellone un titolo originale, senza sottotitoli e giochi di parole, ormai si entra a teatro prevenuti. Un po’ inquieti, col timore del rischio saggio scolastico. Sicuri di rintuzzare contro il già visto, anche, magari, ben ripreso e interpretato. Di essere alle prese con un’operazione di ri-conoscimento, di classificazione di parole e gesti pronunciati milioni di volte. Insomma, di trovarsi a che fare con l’Identico che strutturalmente sta nel Classico. E invece, eccoci a riconsiderare la distanza dei secoli, secondo un’impressione unica e nuova. “Il Racconto d’inverno” diretto da Andrea Baracco, con la Compagnia dei Giovani del Teatro Stabile dell’Umbria, illumina con discrezioni la complessità di uno degli ultimi drammi del Bardo. E senza decostruire e ricomporre la drammaturgia oltre le dovute economie di scena, ci getta con schiettezza in un universo attualissimo ed antico.
La Sicilia e la Boemia, due territori lontani dalla patria elisabettiana, borgesianamente riferiti a una lontananza che trascende dal geografico all’esistenziale. Doppia è l’anima del dramma, che scivola senza sosta fra un piano di dolore ineffabile e una redenzione fiabesca. I primi tre atti sono dominati da una cupezza che fonde i toni tempestosi del “Macbeth” con le suggestioni tematiche di “Otello”. Leonte, re di Sicilia, è stato definito un Otello senza Iago. Il motore degli eventi luttuosi è la sua gelosia incontrollata, che si autoperpetra in un incessante rovello senza alcun sobillatore a ravvivarne l’impeto. Un tormento segreto e totalizzante che permette all’ottimo Ludovico Röhl di provare la sua qualità tecnica sull’ampio spettro delle regali nevrosi shakespeariane. Gli ultimi due atti introducono un soffio pastorale, gli schemi e i simboli narrativi sembrano alludere ad un’inversione. Eppure “Il racconto d’inverno” elude ogni schema di genere.
“Il Racconto d’inverno” diretto da Andrea Baracco, con la Compagnia dei Giovani del Teatro Stabile dell’Umbria, illumina con discrezioni la complessità di uno degli ultimi drammi del Bardo.
Per valorizzarne la stratificazione, la scelta registica cruciale sta nell’analisi del potere immaginifico. Baracco costruire una drammaturgia per fotogrammi, ricercando la perfezione pittorica e compositiva della scena. Colpisce la sapiente illuminazione, che commenta la compresenza di temi, stili, toni psicologici, architettando una scenografia per piani sovrapposti. Come schermi che scorrono l’uno sull’altro, fino allo spazio oltre il sipario semitrasparente che, retroilluminato, fornisce metafora visibile dell’idea di trasparenza e controcampo. L’arredo scenico è scarno, gli attributi curtensi vengono sprezzati con pochi oggetti d’eleganza severa. Un trono, una griglia metallica che fa da prigione, tre tappetini erbosi a far da natura rigogliosa. Tutto in tono su tono fra il grigio e il blu. Apre la scena la presenza emblematica di due valigie in penombra: le più convenzionali, quelle che immagineremo in una fiaba. Sono simboli di un universo narrativo che ha la dimensione pellegrina del viaggiare.
Raffinati escamotage visivi ci fanno sprofondare in un ascolto bambino, mettendoci all’erta sull’idea del dramma come percorso, non come luogo raggiunto. I personaggi de “Il racconto d’inverno” sembrano parlarsi con linguaggi autonomi, come da opere diverse lette all’unisono. Le loro vicende torreggiano in una pianura sconfinata che gli attori sondano con la giusta misura gestuale. La sfida che i nove in scena vincono è gestire in equilibrio la fisionomia irraggiungibile e magica di ogni personaggio. Luisa Borini catalizza l’attenzione nel gigantesco personaggio di Paulina, supplenza salvifica della follia del re. Jacopo Costantini riesce a passare dalla malinconia fatale di Antigono all’errabonda furbizia di Autolico, personaggio che buca l’atemporalità dell’opera, proiettandola verso un linguaggio mediatico contemporaneo. Daphne Morelli riesce a restare in bilico sul carattere bucolico di Perdita, senza stereotiparla. Mariasofia Alleva incarna un’Ermione che pesca fra i sentimenti delle più sciagurate figure shakespeariane, senza eccederne in formalismi lacrimevoli.
I personaggi de “Il racconto d’inverno” sembrano parlarsi con linguaggi autonomi, come da opere diverse lette all’unisono.
Oltre alla loro presenza emerge poi quella sbilanciante del vuoto tra di loro. Da quell’assenza sembra parlare la voce fuori campo che recita le parole di Mamilio, figlioletto del re di Sicilia. La sua voce diventa cardine del flusso narrativo, sul refrain de «C’era una volta un uomo…che abitava vicino a un cimitero». Una linea del testo che condensa e rende ubiqua, nella ripetizione in scena, l’alea di una prossimità totale con l’invisibile. La sua presenza è manifestata da un pupazzo di legno, che compare in scena su un carretto-sedia a rotelle. Un automa, un personaggio emblematico, persino inquietante del testo. Ma non è il suo corpo l’unico giocattolo-simulacro dello spettacolo. Le bambole ricorrono ad amplificare un basso profondo che rende instabile ogni immagine. Una leggera vibrazione atmosferica, come un vento che avvolge attori e oggetti, su una compostezza cromatica e ritmica che congela il tempo, evocando un inverno dell’anima.
Andrea Baracco e i bravi, giovani attori, interpretano il problema della messinscena minando costantemente il proprio stesso linguaggio. “Il racconto d’inverno” in inglese è tale, più propriamente favola: cosa è una favola se non un versante segreto e destabilizzante del linguaggio quotidiano? In questa chiave il tappeto sonoro alimenta il registro onirico, con musiche originali che mescolano note sospese e vetrose di una nenia con inserti rock-pop. Questa è la cornice entro cui va recepita la volontà di portare il testo nei suoi valori poetici originali. È una scelta di regia a servizio della drammaturgia, ma con esiti tutt’altro che filologici. Della parola shakespeariana si coglie l’eterna contemporaneità illuminandone l’ombra. Applaudo, ed è cosa rara, la volontà umile di omaggiare l’immensità di un testo senza stravolgerlo, col coraggio abile dell’ascolto, per riportare in dono la materia del capolavoro.