Novembre, 1999. A seguito della morte di sua moglie in un incidente d’auto, il sessantasettenne Trond Sander (Stellan Skarsgård) ha lasciato Oslo per ritirarsi in solitudine in un piccolo villaggio nella parte orientale della Norvegia. Il millennio sta per volgere al suo epilogo, e allo stesso modo la vita di Trond. Una notte d’inverno, l’uomo riconosce un conoscente della propria infanzia nel vicino di casa Lars. L’incontro riporta indietro i ricordi al 1948, quando Trond, allora adolescente (Jon Ranes) trascorse un’intera estate in una baita in mezzo ai boschi e vicino a un fiume in compagnia del più che ammirato padre (Tobias Santelmann). I lunghi pomeriggi nella foresta, le cavalcate sui cavalli selvaggi e il duro lavoro di taglialegna cominciano a sfumare in una serie di immagini di felicità nostalgica ma anche di accidenti fatali.
Filmato tra gli scenari mozzafiato insinuati tra le montagne e i fiumi al confine tra Norvegia e Svezia, il regista Hans Petter Moland realizza un dramma sull’amore, sulla perdita e la delusione, sui traumi lunghi una vita intera e sul senso di colpa. Troppo? Sicuramente sì, ed è questo il più grande difetto di “Out stealing Horses”, un film pesantemente ammantato di velleità esistenzialiste e metafore inconsistenti. Il discorso del regista mira a srotolare l’attimo; a dispiegare il momento cruciale per mostrare la potenza segnante di un dettaglio, di uno sguardo o di un errore. Il regista norvegese affonda la sua cinepresa nelle situazioni piccoli e intime per cavarne fuori un discorso troppo ambizioso sul destino e sulla redenzione. Se l’immagine fagocita lo sguardo dello spettatore con le bellezze del paesaggio, è nelle sfocature e nelle interruzioni del montaggio che si percepisce la vera natura nascosta sotto le cose.
Il più grande difetto di “Out stealing Horses” è essere un film pesantemente ammantato di velleità esistenzialiste e metafore inconsistenti.
Per scoprire la natura del film, il regista ci fa saltare tra gli anni in un faticoso gioco di flashback sostenuto sui raccordi semantici; a significare il perdurare dell’emozione negli anni e di come i ricordi mutino forma nel passaggio dalla giovinezza alla vecchiaia. La simbologia della soglia e dello stare in equilibrio è onnipresente: la soglia del millennio. Trond alle soglie della vecchiaia e della civiltà nel suo rifugio di solitudine. Oppure, Trond alle soglie della vita adulta in quell’estate cruciale che muterà per sempre il rapporto con il padre e poi, divenuto adulto, anche con la figlia. Oppure, lo stare in equilibrio sui tronchi tagliati, accatastati e poi lasciati scorrere a valle, lontani dal suolo in cui si erano radicati e che li aveva nutriti. Come pure il riuscire a domare i cavalli selvaggi del titolo nel tentativo di restare in groppa alla vita quando questa ti disarciona.
Tutti gli attimi del film sembrano diventare minuti. Parentesi di tempo dilatate per sottolineare il loro potere eziologico e prolungare l’importanza di quanto può capitare in un istante. L’abbandono del padre per una donna verso la quale lo stesso Trond provava un’attrazione, farà crollare le sue certezze e lo segneranno fino all’età adulta. In quel rifugio estivo si innescano una serie di eventi dettati dal caso. Il figlio piccolo della donna viene ucciso per errore dall’altro figlio mentre giocano con un fucile. Un incidente con dei tronchi provoca il ferimento del marito della donna, l’avvicinamento del padre a questa e, contemporaneamente, l’allontanamento dal figlio. Il riconoscimento di Lars, il figlio maggiore dell’amante del padre e che aveva trascorso con loro quell’estate rimanendo profondamente turbato dalla morte del fratellino, costringono Trond a ripensare al suo passato. A districare i tronchi dei pensieri e permettere a questi di sfociare liberi nel presente.
“Out Stealing Horse”, basato sull’apprezzato romanzo di Pet Petterson, soffre di tutti i limiti imputati al cinema di derivazione letteraria.
Anche il decidere è l’azione di un attimo, una mossa praticata sulla soglia (appunto!) tra la sua realizzazione e la sua negazione. Una decisione avvia una serie di conseguenze che porteranno ad altre, ad altre scelte alle quali è impossibile e inutile sottrarsi. “Out Stealing Horse”, basato sull’apprezzato romanzo di Pet Petterson, soffre di tutti i limiti imputati al cinema di derivazione letteraria. Il regista non riesce a tradurre la sensorialità delle pagine se non servendosi dei mezzi di conversione soliti. Voice over, narrazione in flashback e metafore visive. Se nel romanzo il non detto parla nella mente del lettore, davanti alle immagini lo spettatore non riesce a riempire gli spazi della trama con la sola bellezza dello scenario. Il risultato è un film che pretende da chi guarda uno sforzo eccessivo per allineare i pezzi, premurandosi di gratificarlo visivamente ma mai emotivamente. Sospeso e rarefatto, come il nostro giudizio.