Un disco bello, intenso, assai forte, differente. Si chiama “Kublai” e segna l’omonimo esordio discografico di quello che è il nome del nuovo progetto solista di Teo Manzo, cantautore con sede a Milano da cui porta avanti il suo progetto chiamato, appunto, Kublai.
Uscito per il mondo il 4 Dicembre di questo 2020, “Kublai” è un viaggio. Un viaggio che ricalca il silenzio delle conversazioni in cui a parlarsi è il sentirsi in/comune. Un avvicendarsi dialogico quello che nei nove brani del disco va snodandosi da capo a coda.
Come a ridurre le parole per addensarne il silenzio condiviso, in “Kublai” i giri delle corde e le architetture sonore costruiscono un tempio alberato dalle folte chiome che paiono miraggi e che pure hanno salde radici. Questo per dire che molte e diverse sono le suggestioni sonore che arrivano dall’orecchio alla mente e/o viceversa. Di certo, Kublai ha scritto un disco che vuole essere ascoltato. Che se ha bisogno dell’orecchio è perché questo debba essere aperto. E non è mai scontato, come del resto arguì Murray Shafer nel suo “Soundscape” del ’77.
Un avvicendarsi dialogico che è bello, intenso, assai forte e differente. Questo, ciò che nei nove brani di “Kublai” va svolgendosi e snodandosi da capo a coda
I brani, tutti, sono uno più buono dell’altro. Non secondo un senso temporale o numerico, ma secondo gli scambi immaginati e concreti che ritagliano le atmosfere, le vibrazioni, la qualità del suono, della voce e delle liriche. Parole che sembrano trovare una collocazione perfetta dentro dipinti impressionisti-ci. Apripista è “Pellicano”, una ballata che vibra e fa vibrare, che subito suggerisce una certa solennità nelle intenzioni vocali e dunque musicali e, quindi, anche testuali.
C’è poi “Orfano e Crearore”, il singolo che ha anticipato l’uscita del disco e che forse più lo rappresenta nel concept. Una sorta di filastrocca modernissima e pure che ha il colore delle costruzioni antiche. “Nevai” è invece un abbraccio senza articolazioni. Un battito lento e regolare, ma aperto, quasi voglioso d’ influenze addolcite, di una mano sulla fronte, un alito caldo di un respiro presente.
Parole che sembrano trovare una collocazione perfetta dentro dipinti impressionisti-ci
Il singolo più a portata d’orecchio del disco sembra invece essere “Cipango”. Elettronica che va al metronomo che ho ingoiato da bambino e che danza, in fondo, nello stomaco del passato che ancora ingurgita il presente. “Lulluby (Ora dormi degli oceani)” è pura distensione e rilascio d’energia. Chitarre che navigano sperimentazioni che sempre, come in tutto “Kublai”, sono al margine che collega memoria e visione.
Come anche “Alla Luce”, brano denso e ricco di riferimenti, se non omaggi, a quel rock visionario creato in Italia che un poco ricorda i Verdena e un poco getta basi di ri-conoscimento per Kublai. “Le soglie del dolore” è l’ascesi verso la liberazione suprema che bene ha accompagnato la lettura de “Il nostro bisogno di consolazione” di Stig Dagerman da parte di chi – ora – scrive ed ha ascoltato il disco.
“Musa” è un altro singolo che ancora singolo non è. Ritmica e dallo squisito senso pop che va a preparare un finale più disteso, calmo e d’una materia quasi non materica. “È l’ora delle visite, Vincenzo” conclude in bellezza il viaggio di una solitudine che si duplica e moltiplica lungo un percorso che al cronometro dura circa tre quarti d’ora. In verità, il tempo è dilatato insieme a “Kublai”. Capace, come pochi ultimamente, d’ entrare sottopelle ed iniettare dosi di emotiva intensità. Un esordio che è un racconto e che ci si augura poter presto ascoltare dal di qua di un palcoscenico.