Si scrive spin-off, si legge “Mungi la vacca, tanto qualcosa esce sempre”. Abituati a vederne più sul piccolo schermi, moltiplicatori sconfinati di serie tv, quella dei derivati, le costole staccate da una matrice originaria, i personaggi e le sottotrame spinte fuori dal racconto madre sono una pratica tanto affascinante quanto pericolosa. Perché sì, ci appaga non poco stare li a cronometrare quanto impiegherà il figlio a sopravvivere da solo, se diventerà mai adulto e imparerà a camminare sulle proprie gambe, finalmente indipendente. Oppure se durerà ben poco una volta staccato il cordone. Precisamente, sono novantasei i minuti di sopravvivenza concessi a “The Nun – La vocazione del male”, diretto da Corin Hardy, atteso terzogenito della fortunata saga new horror sui coniugi Warren. Arriva dal secondo capitolo, “Il caso Enfield” (2016), il suo dissacrante villain, diventando il fulcro narrativo di questa nuova genesi staccabiglietti.
Quando in un’abbazia di clausura in Romania una giovane suora si toglie la vita, un sacerdote con un passato infestato e una novizia sulla soglia dei suoi voti definitivi vengono inviati dal Vaticano per indagare sull’accaduto. Insieme scoprono il segreto sacrilego dell’ordine. Rischiando non solo le loro vite, ma la loro fede e le loro stesse anime, affrontano una forza malvagia nelle vesti di una suora demoniaca.
Un aspetto interessante della saga patrocinata da James Wan, probabilmente la più riuscita e prolifica degli ultimi dieci anni, è che conta più derivati che fonti. I casi investigati dalla coppia di demonologi si sono fatti film solo per due volte con “The Conjuring – L’evocazione” (2013) e “The Conjuring 2 – Il caso Enfield”, guarda caso gli unici diretti da James Wan. Con questo “The Nun – La vocazione del male” le propaggini filmiche sono salite a quota tre. Quasi si ha l’impressione – per non dire la certezza – che in mancanza di idee e di nuovi spunti rimesta cliché si sia voluto attingere agli elementi riusciti dei due film originari, per ampliarli e innestarli in trame proprie. Ma in tutti i casi, compreso questo, a non funzionare è tutto l’ex-novo fatto di sviluppi e trovate (anzi… perse!) fallimentari e indegne.
“The Nun – La vocazione del male” è un progetto fallito nella resa narrativa e noioso in quella formale.
Pareva impossibile fare peggio dei precedenti “Annabelle” e “Annabelle 2: Creation”. Sembrava scontato fare meglio visto il materiale di partenza, gustosissimo sulla carta e pieno di elementi sostanziosi in fatto di inquietudine e atmosfere nere. Il personaggio di un demone blasfemo in abito monacale è, una volta abituatisi all’immagine en travestì, indubbiamente efficace. Anche stavolta però, l’appeal di partenza finisce per essere soffocato da un impianto abominevole. E in questo caso non si parla di abomini funzionali all’ambientazione o al genere del film. Ma di un racconto involuto che non ha consapevolezza delle proprie ragioni d’essere. O, peggio, ne ha una sola e non fa nemmeno lo sforzo di nasconderlo: portare in sala altri milioni di persone fidelizzate alle uscite precedenti e che non mancheranno di certo questo appuntamento.
“The Nun – La vocazione del male” è un progetto fallito nella resa narrativa e noioso in quella formale. Prevedibile nell’abuso delle soluzioni sussultorie dinanzi alle quali se nel primo film un po’ palpitavi davvero, già nel secondo sprofondavi in poltrona. Il cogliere di sorpresa lo spettatore tranquillo è il minimo sindacale di qualunque sedicente horror. Ma è inammissibile che per farlo il regista si affidi ripetutamente alla stessa soluzione inflazionata. Primo piano, macchina da presa che comincia a girare intorno al personaggio, compare alle sue spalle, sullo sfondo o dal buio che sta lì davanti qualcosa che prima non c’era. Paura eh?
Il colpo di grazia è assestato da una recitazione schematica. Incredibilmente non quella di Taissa Farmiga.
L’unica vocazione del film è alla prevedibilità. Peccato per l’ambientazione e il contorno sacrale efficaci. Peccato perché vengono sacrificati dall’inutile chiamata all’appello di tutti gli ingredienti del genere. Tormenti del passato, antefatti in flashback, inquietudini spirituali accorrono a infarcire una sceneggiatura abborracciata che non rinuncia neppure a qualche battutina da pubblico della domenica, in questo caso affidando a un improbabile co-protagonista sempliciotto il compito di svisare di tanto in tanto sullo humour improprio. Il colpo di grazia è assestato da una recitazione schematica. Incredibilmente non quella di Taissa Farmiga, sorella di Vera, la protagonista dei film di Wan, e che qui funziona con la sua espressione singola e mai singolare. Il doppiaggio caricaturale è sincronizzato solo con la pessima qualità del tutto. In extremis sopraggiungerà un collegamento autoassolutorio con i capitoli precedenti, quasi a dire: “ricordiamoci di quelli che è meglio!”.