Ad aprire la tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma troviamo Drew Goddard con il suo ultimo film, “7 sconosciuti a El Royale”. Il titolo italiano vorrebbe fare eco al celebre romanzo di Agatha Christie, “Dieci piccoli indiani”, proprio per la vena mystery dell’opera. Ma risulta solo una delle tante traduzioni azzardate da parte della nostra distribuzione. L’originale “Bad Times at El Royale”, decisamente più consono, dà una duplice valenza al film, visto il suo svolgersi in un arco narrativo lungo un’intera nottata, e sopratutto, non meno fondamentale, il periodo storico in cui è ambientato. Siamo nel 1969, un anno di passaggio per la storia americana. Nixon è il 37esimo presidente degli Stati Uniti, la guerra in Vietnam infervora, e le raggianti utopie hippie saranno destinate a trasformarsi in incubi per mano degli omicidi della Manson’s Family.
Nel confine tra il Nevada e la California, troviamo il maestoso hotel El Royale, oramai fatiscente e divenuto una pensione economica di quart’ordine. Diversi personaggi si ritrovano a pernottare nello stessa notte: Il prete Daniel Flynn (Jeff Bridges), la cantante Darlene Sweet (Cynthia Erivo), il venditore Sullivan (Jon Hamm), e la misteriosa Emily Summerspring (Dakota Johnson). Dopo un’iniziale titubanza sul luogo, verranno accolti dal lobby boy Miles Miller (Lewis Pullman), unica figura che sembra abitare nell’immenso edificio. Il film fin dai primi minuti inizierà a mettere in luce la vera natura dei protagonisti e delle loro azioni. Come in tutti i mystery che si rispettino, ogni personaggio non è definibile in quanto positivo e negativo, ma giudicabile solo attraverso le ragioni delle proprie gesta nel corso della narrazione.
“7 sconosciuti a El Royale” di Drew Goddard rientra nella categoria di quel cinema d’autore americano che riesce a far convivere genere e autorialità.
Drew Goddard con una regia tra il manieristico e l’essenziale, alternando frenetici stacchi di macchina da presa con fluttuanti piani sequenza, riesce a rendere il racconto mai intuibile. Al suo secondo lungometraggio, dopo l’horror acclamato “Quella casa nel bosco”, dimostra nuovamente piena capacità nel gestire più attori accomunati da un’unità di luogo. Prendendo spunto dai riferimenti più eterogenei, che vanno dal cinema noir anni ’40, a quello più intimista degli autori della New Hollywood, forma una storia capace di essere godibile da un punto di vista narrativo, e riflessivo da quello concettuale. La storia americana riverbera sempre nel film, non è solamente un sottofondo contestualizzante, e il malessere dei personaggi rispecchia un malessere sociale più ampio. Drew Goddard, oltre caricare la narrazione di azione, movimento e musica popolare del periodo, delinea minuziosamente i suoi personaggi e le loro psicologie.
Non è un caso che tutti gli attori del film abbiano una carriera veicolante dal cinema più mainstream a quello indie. Con il grande cast coinvolto, l’azione si alterna fra sequenze thriller al limite del b-movie ad attimi da vero dramma introspettivo. Ogni atto in cui è suddiviso il film prende il nome dai numeri delle stanze dei vari personaggi. È un monito che introduce l’approfondimento della loro storia personale, mettendola in contrapposizione al periodo storico. È sempre più raro vedere un film come “7 sconosciuti a El Royale”. Rientra nella categoria di quel cinema d’autore americano che riesce a far convivere genere e autorialità. E Drew Goddard, in veste di regista e sceneggiatore, dimostra di affrontare la sfida egregiamente. Dopotutto, è raro che Hollywood dia a un autore quasi emergente pieno controllo sulla propria opera. Ottimo inizio.