AFGHANISTAN e IL GRANDE GIOCO di un brillante documentario teatrale
Il cast della saga teatrale “Afghanistan”, in scena al Teatro Argentina in due parti.
Il cast della saga teatrale “Afghanistan”, in scena al Teatro Argentina in due parti.

AFGHANISTAN e IL GRANDE GIOCO di un brillante documentario teatrale

Com’è riuscito Alberto Angela a sopravvivere al crollo dell’interesse del pubblico per i programmi culturali? Rendendo interessante la storia, romanzandola e non alterando la natura del fatto avvenuto. È una formula che nasce con la prima docufiction. Esistendo tra le pieghe della Storia l’Uomo che non siamo diventati, questa diventa fonte avvincente di ispirazione per oggetti drammaturgici. Che sia la grande storia oppure la personale biografia. Perché spesso la realtà supera ogni fantasia.

“Afghanistan” prevede una messinscena molto cinematografica, tra spezzoni di video ad agevolare la narrazione e sfondi proiettati.

“Afghanistan” è un’epopea divisa in due parti che ripercorrono la storia di una nazione dal travagliato scontro con l’imperialismo inglese fino ai giorni nostri. Un documentario teatrale, direttamente dal Tricycle Theatre di Londra, con l’intenzione di regalare l’opportunità di far luce su una parte di storia spesso ignorata e a volte dimenticata. La catarsi teatrale sembra assumere la forma di espiazione grazie alla memoria.

“Afghanistan ─ Il grande gioco” è composto da cinque atti, scritti da cinque penne diverse. Le sceneggiature di Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen JeffreysJoy Wilkinson, tradotte da Lucio De Capitani, facilitano e alterano al tempo stesso il concetto di studio della storia. La regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani dà un soffio di umanità alla scarna cronaca storica.

I primi cinque atti mostrano pagine di storia che difficilmente vengono lette. Il grande rimosso dalla cultura europea è il capitolo sull’imperialismo. Iniziare ad affrontarle artisticamente significa iniziare a fare i conti con i limiti dell’eurocentrismo. Di cui pur resta viziata la narrazione degli sceneggiatori, ma in assenza del quale i contenuti proprio non arriverebbero. Perché è ad un pubblico occidentale che “Afghanistan” si rivolge. Ed è stato scritto per svegliare coscienze occidentali.

“Afghanistan” prevede una messinscena molto cinematografica. Tra spezzoni di video ad agevolare la narrazione e sfondi proiettati, è anche possibile immaginarsi un cameraman che inquadra i volti degli attori sul palco. Forse troppo. La molteplicità degli autori sarebbe un punto di forza se emergessero peculiari differenze stilistiche tradotte in tratti drammaturgici diversi. I diversi quadri non colgono l’occasione data dal mezzo teatrale di scuotere il pubblico.

La narrazione di “Afghanistan ─ Il grande gioco” si interrompe alla metà degli anni ’90, al tramonto dell’URSS.

Eccezion fatta per il brillante copione di Stephen Jeffreys, autore del primo quadro. “Trombe alle porte di Jalalabad”  è caratterizzato da ritmo alto e lirismo profondo e caleidoscopico. La moltiplicazione delle prospettive sul colonialismo è un punto di forza arricchito dal pensiero divergente, che non stona. In questo meraviglioso spazio di espressione non sono protagonisti solo gli uomini che hanno fatto la guerra. Anche una donna, una straordinaria Claudia Coli, apprezzatissima in tutto lo spettacolo, fa sentire la  sua voce come parte civile. Sebbene non sia inclusa nella storia, la completa, e la sua narrazione rende la scena dinamica e poco scontata.

Il resto è cinematograficamente come te lo aspetti. Gli autori hanno immaginato gli uomini dietro gli eventi ufficiali e li hanno portati in scena. Manca quella nota di distinzione che ha fatto del primo quadro il più interessante di due ore e mezzo di performance. Perlomeno lo humour inglese mette al riparo da risate grasse e fuori luogo. Ed è proprio grazie all’ironia che i cliché antropologici portati in scena vengono spogliati di qualsiasi valore ontologico.

Ancor più sferzante e violento è il sarcasmo quando si rivolge verso i cugini americani. Isteria, doppiogiochismo e un vago sentore di incoscienza sono emersi efficacemente dall’interpretazione di Massimo Somaglino e Fabrizio Matteini. Persiste il dubbio sulla pertinenza del luogo di espressione. La forma teatrale sembra appartenere davvero solo al primo quadro. Gli altri sembrano piuttosto privati della cinepresa. In ogni caso, la narrazione di “Afghanistan ─ Il grande gioco” si interrompe alla metà degli anni ’90, al tramonto dell’URSS, per continuare in scena il 19 ottobre e il 21, insieme a “Afghanistan ─ Enduring freedom”, in scena stasera e sabato 20.