In “Stray Dogs” (2014), succeduto a “Un gelido inverno” (2009), Debra Granik aveva illustrato la lunga scia lasciata dalla guerra attraverso i traumi di un veterano del Vietnam. Con distacco documentario, la regista mostrava come la comunità dei reduci si sostenesse a vicenda per dare un senso alle esperienze vissute, ai fantasmi che continuavano a perseguitarli negli anni. Invece, dell’ex-soldato protagonista di “Senza lasciare traccia” non sappiamo granché. Interpretato da Ben Foster e dalla quasi esordiente Thomasin McKenzie, questo dramma ammirevole riflette con acuta sensibilità e raffinatezza narrativa su come un trauma segni la vita di una famiglia, lasciando una ferita sempre aperta che rischia di ripercuotersi sulla generazione successiva. Eppure, proprio quest’ultima potrebbe riuscire a sanare il dolore e a guarire tutti. Basato sul romanzo di Peter Rock, “My Abandonment”, “Senza lasciare traccia” rinuncia alle precedenti convenzioni del thriller per potenziarsi su logiche di suspense interiore.
Quando “Senza lasciare traccia” inizia siamo avvolti dalla vegetazione. Con la stessa probabilità potremmo trovarci in uno scenario post apocalittico o al limitare di un’area campeggio. Will (Ben Foster) e Tom (Thomasin McKenzie) sono un padre e una figlia che hanno scelto il bosco come loro dimora. Il motivo di questa condizione lontana dalla civiltà non è inizialmente chiaro. Li vediamo impegnati in una serie di attività quotidiane e in esercitazioni quasi paramilitari. Quando la polizia, i ranger o i campeggiatori si avvicinano, i due corrono a mimetizzarsi con la vegetazione. Probabilmente, è una tattica che Will ha imparato nell’esercito. Infatti, come un soldato che non è mai tornato veramente anche quando la guerra era terminata, l’uomo continua ad affrontare la vita come se stesse ancora al fronte. Il problema reale è che in questa esistenza al limite, l’uomo ha coinvolto anche la figlia.
Will e Tom hanno costruito una casa all’interno di un parco urbano vivendo con nient’altro che i vestiti che indossano.
“Senza lasciare traccia” scorre, e Tom sta evidentemente crescendo. Inizia a formare le proprie opinioni sul mondo, e queste non sono più in accordo con quelle di suo padre. Un primo cenno di cambiamento giunge quando i due vanno in cerca di cibo. La dieta di Tom a base di funghi selvatici e acqua piovana non sembra saziarla più. Una tappa al supermercato ci dà una comprensione più chiara della relazione tra i personaggi e le ragioni della loro scelta di vita. Will fa una sosta in un centro per veterani per ritirare una prescrizione di farmaci contro il disturbo post-traumatico da stress. Più tardi, li venderà ad un altro veterano che vive nei boschi. In questo modo lo spettatore è spinto ad avvicinarsi a Will, chiaramente malato, ma la sua incapacità di curarsi realmente sposta l’interesse su Tom, che non ha mai avuto la possibilità in una vita normale.
Padre e figlia hanno costruito una casa all’interno di un parco urbano vivendo con nient’altro che i vestiti che indossano, pochi semplici utensili e qualche tegame per cuocere il cibo. Hanno una copertura di tela cerata per proteggersi dalla pioggia e devono procacciarsi la maggior parte dei viveri. Il dialogo tra loro segue un flusso naturale, come se l’ambiente osservasse la loro relazione. Invece di dire ciao o ti voglio bene, padre e figlia emettono un rumore particolare che risuona come un incrocio tra il canto degli uccelli e un bacio. In una delle scene finali, sul crinale di una profonda mutazione, pare quasi di sentire un uccello rispondere con quello stesso verso: un’eco ripetuta tra le fronde degli alberi come in sintonia col loro rapporto. Non si percepisce l’urgenza di dover spiegare cos’è stato. Non c’è spazio per le domande sul passato, ma solo la necessità di affrontare l’adesso.
“Senza lasciare traccia” oltrepassa la semplice descrizione di stili di vita non convenzionali per aprirsi a quesiti più ampi.
Will ha un rapporto affettuoso e per lo più privo di parole con la figlia, i cui occhi guizzanti e il naso tremolante danno l’aspetto di un animale selvatico. In un certo senso, il film esplora la genesi dell’emancipazione familiare, con la figlia che crescendo si allontana a poco a poco dal padre. In questo modo “Senza lasciare traccia” oltrepassa la semplice descrizione di stili di vita non convenzionali per aprirsi a quesiti più ampi e generici sulla libertà. Chi decide come debbano vivere le persone? È la domanda filosofica che incombe sui due protagonisti e che si interseca con un’altra più intima: perché un genitore dovrebbe decidere quale vita far vivere al figlio? Debra Granik circonda questi quesiti e traccia l’evoluzione della relazione genitore-figlio elaborando dettagli microscopici, raccogliendo dai gesti più piccoli quel tipo di emozioni che in genere le pagine di sceneggiatura non possono rendere.
Non c’è niente di spettacolare nello stile, perché non è necessario. Anche nei momenti più tesi, il film è alimentato dalla fierezza dei protagonisti. Debra Granik li tiene sempre d’occhio. Anche nel passaggio dalla natura alla civiltà non li lascia mai. La regia conserva uno stile documentario, mostrandoci sia la semplicità che le complessità che caratterizza la sopravvivenza selvatica. L’intensità del film è racchiusa nei momenti in cui non sentiamo parlare le persone, ma semplicemente le osserviamo. I dettagli sulle mani che lavorano o sul ritmo creato da qualcosa di semplice, come la forchetta di Tom che raschia la ciotola. C’è una divisione evidente tra gli spettatori e i personaggi, ma anche un invito a entrare nel loro mondo. Tom e Will diventano le nostre guide. Siamo disposti a seguirli. Come loro, soffriamo nello stare troppo a lungo in un posto. Così, lentamente, il loro viaggio diventa il nostro.
“Senza lasciare traccia” è una storia che affonda le radici nella fragilità delle relazioni umane.
La cosa affascinante della struttura dei “Senza lasciare traccia” e della performance degli attori è rendersi conto che, anche se fuori dalla civiltà, in realtà non sono così lontani dalle comodità della vita moderna. Nonostante la volontà di vivere in un certo modo, Will e Tom hanno entrambi bisogno della società conforme. Un mondo standardizzato che avanza verso di loro e che alla fine li raggiunge. Quando vengono scoperti per la prima volta c’è un’inquadratura grandangolare tra Tom e l’assistente sociale Jean (Dana Millican), in cui l’uomo occupa il lato sinistro del fotogramma, la donna quello destro, e un grosso albero li separa. La composizione del quadro è al crocevia narrativo, ma soprattutto restituisce in immagine il divario tra Tom e, per estensione, l’esistenza di lei e suo padre al di fuori del mondo. Possono continuare a vivere in quel modo? Ma soprattutto, lo vogliono davvero entrambi?
La necessità di normalizzarsi diventa il punto centrale del conflitto. Leggendo della vita dei cavallucci marini da una vecchia enciclopedia, animali legati insieme per la vita, Tom e Will vengono scoperti. Si presentano la polizia, gli assistenti sociali e, soprattutto, la possibilità di dare alla bambina un’esistenza diversa. Questo sviluppo nella trama si riversa nell’emozione dello spettatore che, da questo momento, comincia a sentirsi frustrato. Da un lato soffriamo davanti all’egoismo del padre nel sacrificare le proprie ragioni. Dall’altro, nonostante Will stia negando a sua figlia la normalità di cui ha bisogno e che desidera, vogliamo vederli insieme. Proprio come gli animali del libro restano uniti, anche quando ciascuno vuole qualcosa di completamente diverso dall’altro. “Senza lasciare traccia” è una storia che affonda le radici nella fragilità delle relazioni umane e nella difficoltà di rinunciare alla persona amata, che sia per salvare te stesso o per salvare lei.