Da “Mommy” di Xavier Doland a “Un sogno chiamato Florida” di Sean Baker, molti film recenti si sono soffermati sulle difficili relazioni genitori-figli. Presentato nella sezione Un Certain Regard dello scorso Festival di Cannes, anche “Angel Face”, debutto cinematografico di Vanessa Filho, esplora questo territorio. Ma sotto la superficie di paillettes graffianti e baci patinati dal rossetto, non c’è molto di scintillante nell’umanità presentataci dal film. La storia di una giovane madre negligente e di sua figlia di nove anni diventa sempre più difficile da guardare. Le mancanze materne cercano di essere colmate con le vuote professioni d’amore di una donna che non sembra amare nessuno, soprattutto se stessa. E allora il fastidio cresce. Ma anche l’insopportabile può essere commovente. Infatti, il film preserva nel tema una ricchezza di sfumature e profondità che dà vita a una storia tortuosa ed estranea ai facili schemi.
Sotto la superficie di baci patinati dal rossetto, non c’è molto di scintillante nell’umanità di “Angel Face”.
In un appartamento vicino a una spiaggia della Costa Azzurra, la giovane Elli (Ayline Aksoy-Etaix) vive con la madre alcolizzata Marlene (Marion Cotillard). Nonostante la giovane età, Elli è una bambina precoce e saggia, e soprattutto ha già imparato a fare a meno della madre. Non importa quante volte la donna prometta di rimediare all’ennesimo errore appena commesso e di non ripeterlo più, l’immaturità e l’impulsività di Marlene la rendono nei fatti un’adolescente. Dopo un’altra serata fuori a base di alcol, la donna abbandona Elli per un uomo che ha appena incontrato, lasciando sua figlia a badare a se stessa per giorni, forse settimane. Durante la sua nuova indipendenza, Elli troverà una sorta di padre in Julio (Alban Lenoir), un misterioso ex sommozzatore il cui padre vive nell’appartamento accanto.
Già la scena iniziale del film inverte la tipica dinamica madre-figlia, per chiarirci subito che nel rapporto è la bambina a fornire conforto e rassicurazione. Tutto questo mentre sentiamo per la prima volta quello che poi diventerà un mantra. “Andrà tutto bene” le ripete la madre, sbronza e lustrata a festa, dopo essersi appena gettata sul cuscino della figlia, salvo poi imbrattarlo di trucco e lacrime. Questo incipit è seguito dall’ennesimo matrimonio di Marlene in cui va in scena tutta la sua inadeguatezza materna. L’ansia costante e il bere compulsivo minano ogni sforzo positivo di creare un ambiente domestico stabile, rinnovando la vacuità di ogni promessa fatta. Dapprima assistiamo a un discorso pieno di speranza, l’ipotesi di una nuova vita, un’altra figura paterna da dare a sua figlia. Parole rinnegate di lì a poco, quando Marlene, imperdonabile auto-sabotatrice, viene colta dal suo neosposo a tradirlo con uno degli invitati.
“Angel Face” è innervato dall’idea che la sofferenza venga trasmessa da madre a figlia.
Marlene non è una donna cattiva, bensì una madre terribilmente inadeguata. Ha allestito uno spazio vitale luccicante e luminoso, troppo adulto per dare sicurezza a qualsivoglia bambino. Uno spazio abbacinante nelle sue ipercromie glitterate e trash. La regista le moltiplica filmicamente attraverso frattali di luce, scintillii prismatici, riflessi specchiati e immagini mai integre sempre frantumate dal primo piano. Marlene tratta Elli come un’amica adulta, o piuttosto come un’estensione di se stessa. Prepara drink davanti a lei, la ricopre di rossetto al neon e ombretto scintillante. “Non sei carina?” le domanda in questo gioco di travestimenti reciprochi. Frasi mai rassicuranti che slittano verso la degenerazione, condensata in una delle scene più laceranti del film. “Non è carina?”, chiede Marlene all’uomo che ha appena rimorchiato. Dopodiché la donna infila la bambina su un taxi e chiude la portiera. Attraverso il finestrino posteriore Elli guarda sua madre flirtare mentre la vettura si allontana.
“Angel Face” è innervato dall’idea che la sofferenza venga trasmessa da madre a figlia, immutata nel tempo e impermeabile all’esperienza. Ogni generazione ripete gli errori di quella precedente, perpetuandoli all’infinito. Infatti, nonostante l’incuria e l’irresponsabilità di sua madre, Elli impara i riti della femminilità osservandola, per poi replicarli anche in modo distorto. Un’imitazione che si manifesta al massimo della sua inquietudine durante l’assenza di Marlene. La bambina si aggira per casa barcollando sui tacchi a spillo della madre, con le labbra sbavate di rosso e in mano un bicchiere. Finanche inizia a correggere il suo succo di mela e alimentare gli animaletti di peluche col bourbon. L’immagine di Elli che beve del vino bianco mentre guarda il tramonto sul balcone è particolarmente avvilente. Non solo perché la bambina è sola o perché beve prematuramente, ma perché comincia ad assomigliare alla madre in modo terrificante.
“Angel Face” tenta un’estensione di responsabilità dal personale al sociale.
“Angel Face” tenta un’estensione di responsabilità dal personale al sociale. A più riprese dipinge il malsano e altrettanto violento contesto in cui mamma e figlia sopravvivono. La regista dipinge un’immagine crudele e accurata del bullismo scolastico. Gli altri bambini chiamano Elli ubriacona, le chiedono se abbia già fatto sesso. Quando le viene assegnato il ruolo della sirenetta nella recita scolastica, la classe si leva in una risata di scherno. La vessazione costante si riversa sulla bambina a causa della madre, primo oggetto di rifiuto sociale. Marlene è umiliata al supermercato quando non può permettersi la spesa. O quando porta a scuola la figlia con addosso minigonna e tacchi, e la cinepresa si sofferma sugli sguardi giudiziosi delle altre madri. Elli finge di non preoccuparsene, troppo matura da sapere di essere un’emarginata ma troppo piccola per potervi reagire. Corre da sua madre e la abbraccia.
Ma è un abbraccio a senso unico perché le due non sono in alcun modo alleate. A metà di “Angel Face”, quando Marlene esce di scena, Elli è lasciata a se stessa. La guardiamo andare a scuola da sola, tornare in una casa vuota, aprire un sacchetto di patatine come cena. Più tardi, con le gambe penzoloni sul bordo di una piscina vuota, berrà una lattina di birra. Elli è affamata d’amore, disposta ad aggrapparsi alla prima persona a lei più vicina, a prendersene cura per paura di un nuovo abbandono. Fino a Julio gli uomini nella sua vita sono stati o assenti come suo padre, o molesti come i ragazzi che insultavano la madre. A un certo punto un compagno di classe le offre una moneta per un bacio nel bagno di scuola. Uno scambio infantile ma emblematico delle nozioni di sessualità che Elli ha ereditato dalla madre.
“Angel Face” dipinge un’immagine che è toccante ma al contempo repellente.
In confronto, Julio è il principe delle fiabe e non sorprende che Elli lo riconosca immediatamente come una persona di cui potersi fidare. Per questo è ancora più straziante l’impossibilità per l’uomo di ricambiare l’affetto filiare che la bambina gli dà. Elli vorrebbe che Julio fosse suo padre e come tale lo presenta agli altri. Come tale ne invade la privacy presentandosi nella sua roulotte. Il facile pietismo che un personaggio del genere potrebbe suscitare viene allontanato dalla credibilità emotiva di Ayline Aksoy-Etaix, che è in grado di umanizzare anche i momenti più disturbanti. Come da copione, Marion Cotillard riesce ad aggraziarci anche un personaggio moralmente scomodo come Marlene. Tuttavia. le notevoli capacità recitative e il carisma naturale dell’attrice appaiono sprecate in un melodramma che, soprattutto nella seconda parte, si fa programmatico nell’accumulare un’altra scena di sofferenza su quella appena terminata.
L’economia della narrazione è mal gestita e l’estetica finisce spesso per avere la precedenza sul contenuto. E quando questo emerge, appare sovraccarico di simbolismo. La traiettoria di “Angel Face” è disomogenea e alla fine finisce per curvarsi quando l’innocenza di Elli viene spazzata via. Non è chiaro se il film punti a un messaggio conclusivo e se ci sia una sorta di risoluzione. Ma se c’è, non è certamente positiva. “Angel Face” dipinge un’immagine che è toccante ma al contempo repellente. Gli eccessi estetizzanti catturano lo sguardo, ma a lungo termine sospendono l’attenzione e l’interesse. Vanessa Filho crea indubbiamente un insieme originale, ma i vuoti e le incongruenze si accumulano numerose. Alla fine le poche spiegazioni concesse sono troppo stiracchiate per diventare degli autentici punti di svolta. E una spudorata monotonia affiora.