Esiste una saga che racchiude ogni genere letterario senza tema di risultare un vuoto contenitore di stili discordanti. Dopo aver venduto un numero spropositato di copie, la sua forza narrativa ha cambiato le sorti del mondo, ispirando trasposizioni più o meno valide. Se state pensando all’opera di George R. R. Martin, siete fuori strada. Parlo del Vecchio Testamento, che, pur narrando le gesta di eroi, giochi di potere, storie di spade e troni, nel suo essere cripticamente confusionario è il testo più umano e avvincente che sia mai stato scritto. O ispirato divinamente.
La sua forza comunicativa è strettamente legata alla sedimentazione di registri narrativi che, pur passando dall’epica mitologica alla poesia romantica, risultano comprensibili in ogni epoca. L’umanità dei personaggi biblici, nelle loro tragiche vicende, trascende le catene del tempo. Non sorprende che i racconti delle tre grandi religioni continuino ad affascinare anche persone lontane dalla fede e dai suoi dogmi. I testi sacri si prestano quindi a essere materiale perfetto da elaborare per un drammaturgo che decide di inscenare la mitologia ebraica.
“Anticotestamento” pretende di attualizzare la narrazione biblica per raccontare i drammi che affliggono il mondo moderno. Lo fa creando sovrastrutture che invece allontanano i personaggi dal pubblico. Forse ispirandosi alle solenni performance da colossal hollywoodiano e al mondo della tragedia greca, Gianluca Paolisso chiede al suo cast una recitazione enfatica e estrema. L’infelice scelta di utilizzare gli attori per enunciare il testo affonda ogni intento comunicativo, inficiando qualsiasi sforzo interpretativo con uno spettacolo monocorde.
Le interazioni con gli oggetti scenici e i materiali utilizzati rendono “Anticotestamento” dilettantistico e laboratoriale.
Ivano Conte introduce i tre quadri caravaggeschi come un astioso narratore esterno, diventando antagonista demoniaco e demiurgo. Dispiace vederlo relegato su una sedia per tutta la durata della pièce, nonostante sia l’unico in scena a regalare movimenti puliti e precisi. Daria Contento interpreta una moderna Giuditta, incarnazione dello spirito di una guerra senza tempo. La piattezza del ruolo urlato fa trasparire una grave sofferenza. Quella delle corde vocali dell’attrice, non adeguatamente preparate a sostenere ─ lo rimarco ─ una triste scelta registica.
Le interazioni con gli oggetti scenici e i materiali utilizzati rendono lo spettacolo dilettantistico e laboratoriale. Se ai sottotitoli anglofoni per indicare le quattro fasi belliche ho sogghignato, al lavaggio di mani macbethiano avrei voluto abbandonare la sala. L’utilizzo di cliché degni di un bignami di storia del teatro distrae dalle poche note positive di “Anticotestamento”. Se il primo quadro annoia e fatica a trasmettere la straordinarietà del personaggio di Giuditta, il secondo rappresenta la vera occasione persa di tutta la messa in scena.
Il terzo atto risulta il più riuscito. Le interazioni fra La Veggente di Chiara Della Rossa e Ivano Conte sono l’unica parte di “Anticotestamento” che non suona artificiosa.
Elèna Elizabeth Scaccia indossa un didascalico velo nuziale per interpretare La Sposa. È subito chiara l’ispirazione dietro questo atto: il “Cantico dei Cantici”. Lo shìr hasshirìm è, senza dubbio alcuno, il brano più emozionante di tutta la Bibbia. La poesia degli amanti è la sublime descrizione dell’amore, sensuale e sessuale, tenera e mai banalmente romantica. Vera. Gli interventi sul testo appiattiscono ogni suggestione lirica e allontanano “Anticotestamento” dalla volontà di trasporre nella modernità il racconto biblico.
Sarebbe bastato respirare l’olezzo del cinnamomo al posto del profumo di cannella per rimanere fedeli alla viva bellezza dell’ásma asmáton. Se il cedro non viene più dal Libano e i monti Hermon e Galaad diventano solo il Monte degli Aromi, scema la possibilità di portare lo spettatore in un Medio Oriente martoriato. Elèna Elizabeth Scaccia è costretta a passare spasmodicamente dalla poesia enunciata senza intenzione a microfonati sussurri conditi dal delay. E ancora a muoversi disorganicamente e impacciatamente, vittima di un’evidente schizofrenia direttiva.
Ivano Conte introduce i tre quadri caravaggeschi come un astioso narratore esterno, diventando antagonista demoniaco e demiurgo.
Il fascino del testo viene violentemente deturpato dalle contraddizioni sceniche, che creano, a essere buoni, un effetto comico e grottesco. Il “Cantico dei Cantici” non ha bisogno di questo. Lo sapeva Maria Antonietta Sisini quando ha composto “La sposa” con Giuni Russo, regalandoci un brano interpretato in punta di piedi e un’interpretazione che rende divino l’essenziale. Impossibile trovare questa delicatezza nell’opera di Gianluca Paolisso. Che sceglie anche di utilizzare davvero troppe tracce per creare suggestioni che non riesce a trasmettere in scena.
Il terzo atto risulta il più riuscito. Le interazioni fra La Veggente di Chiara Della Rossa e Ivano Conte sono l’unica parte di “Anticotestamento” che non suona artificiosa, evidenziando la natura prettamente registica dei problemi che affliggono lo spettacolo. Inconcepibile la scelta di utilizzare una canzone alpina a coprire le parole degli unici monologhi scritti decentemente. Ancor più quella di svestire l’attrice con un costume volgare e gratuito. E non fatemi analizzare l’involontaria comicità del martelletto e della pistola che didascalicamente suggeriscono un processo.
“Anticotestamento” pretende di attualizzare la narrazione biblica per raccontare i drammi che affliggono il mondo moderno.
Lo spettacolo pecca insomma su troppi fronti. Le buone idee si perdono in un’esecuzione dilettantistica che lede l’immagine del cast. Se il registro scelto deve essere quello solenne ed enunciato del teatro classico, bisogna trovare attori con una dizione perfetta e un’impostazione vocale eccellente, possibilmente senza asmatici sospiri pseudodrammatici. O si rischia di far apparire dei professionisti come dei bambini che si mangiano le parole durante una recita scolastica. Il movimento scenico, se deve essere un punto di rottura, deve essere studiato ed eseguito con precisione chirurgica e direzioni chiare a tutti.
Salvo l’utilizzo delle luci e le buone intenzioni dei quattro attori. Nonostante i loro sforzi, però, i personaggi risultano deboli. Sembra non esserci una comprensione dei caratteri, manca l’indagine sulle loro psicologie. Il risultato è una messa recitata, che annoia come la mnemonica narrazione della Bibbia all’interno della liturgia cattolica. Chiedo scusa alla compagnia Genesi Poetiche per la critica così dettagliata, ma “Anticotestamento” ha un grande potenziale. Non è tardi per realizzare la volontà di rendere carne viva le storie scelte. Asciugando gli eccessi e trovando i giusti registri, la nobile impresa non sarà impossibile.