BEERCOCK: "Uso il corpo e la voce per veicolare un ideale"
Beercock, performer, attore e cantautore
Beercock, performer, attore e cantautore, con il suo nuovo singolo anticipa un album corpo e voce

BEERCOCK: “Uso il corpo e la voce per veicolare un ideale”

Ciao Beercock, benvenuto su Music.it! Cominciamo l’intervista con una simpatica richiesta per rompere il ghiaccio: raccontaci un aneddoto divertente e imbarazzante legato alla tua carriera musicale!

Una volta ho cambiato le corde della chitarra al contrario. Ed ero sobrio.

La tua carriera è molto varia e non unicamente legata alla composizione musicale: sei un performer, un attore, e poi anche un cantautore. Che qualità e finalità attribuisci alla musica nella tua esperienza creativa?

La musica è un ramo del mio linguaggio complessivo che è la performance: è di certo la più lampante e immediata, ma cerco sempre di non definirmi un musicista. Ho bisogno di tutto il corpo per cantare, e ho bisogno di dire le cose che sento e che mi agitano, mi fanno sentire vivo. Tutto questo è la mia musica. Ma è anche il mio teatro e anche la poesia.

Hai origini inglesi ma vivi in Italia. Questo dato biografico ha in qualche modo inciso sulla tua scrittura? Oltre ad aver scelto un nome d’arte in lingua inglese, noto che scrivi principalmente in questa lingua.

Devo deluderti o sorprenderti: BEERCOCK è il mio vero cognome! Ma è talmente originale e siamo in così pochi al mondo ad averlo che non potevo lasciarmelo scappare come contenitore di una identità artistica. Le mie origini da un lato inglesi (e andando ancora più indietro persino gypsy e irlandesi) e dall’altro siciliane sono senz’altro una base solidissima per quello che faccio e esprimo, sebbene sia così eterogenea. Ho sempre qualcosa (una storia o un luogo o un mito) a cui riferirmi da qualche parte se mi sento inquieto o perso.

Il tuo nuovo singolo, “See you around the bend”, diffuso il 10 Luglio, anticipa il tuo secondo album, atteso per l’autunno. Una sperimentazione “corpo e voce”, come tu stesso l’hai definita sui social, ovvero in cui il canto e la percussione del corpo sono gli unici strumenti usato nella composizione dei brani: com’è nata l’idea e cosa vorresti trasmettere a noi ascoltatori con questo disco?

Uso il corpo e la voce per veicolare un ideale, non mi è mai bastato il ruolo preconfezionato del cantante o dell’attore: io sono tutto ciò che mi passa attraverso e che do al pubblico. È un inno all’umanità, che in un periodo come questo si trova proprio “around the bend”: incito tutti a ritrovarci “alla fine della curva” per guardare la società sotto una nuova luce. Tutto l’album che verrà è incentrato sull’idea di una nuova umanità: consapevole, esigente, per cui bisogna lottare. Senza esclusioni, senza confini, senza sfruttamento.

Ci sono delle influenze musicali particolari che hanno ispirato questa ricerca?

Le influenze sono troppe per elencarle, alcune non credo nemmeno di saperle consciamente! Mi vengono in mente (fra i contemporanei) Anthony & the Johnsons, Moses Sumney, Bon Iver, Four Tet, Benjamin Clementine. Ma i miei ascolti costanti sono Otis Redding (e tutta la scena soul di Memphis di quel periodo), i primi lavori dei Roxy Music, tutto di John Coltrane, W.A.Mozart (nelle esecuzioni di Glenn Gould).

I brani del tuo album d’esordio, “Wollow”, uscito nel 2017, evocano una spazialità molto ampia e avvolgente per l’ascoltatore: alla base chitarra e voce e sonorità che mi fanno pensare anche ad un certo tipo di world music. “See you around the bend” sembra anticipare un tocco più soul e gospel. Sono affermazioni corrette? Che differenza d’impronta hanno i due album?

Con “see you around the bend” sono tornato ai miei ascolti più interiorizzati, quelli dell’infanzia, il soul di Motown, Stax da un lato del mare, e certi ritmi e guizzi del flamenco dall’altro: suoni ai quali da bambino non sapevo dare un nome, mi entravano dentro e mi spremevano, mi espandevano, mi accompagnavano a guardare il mondo. A quello sono voluto ritornare: al mondo in cui si corre a perdifiato con tutta l’anima, ma con la coscienza sociale, esistenziale di adesso, di un adulto.

In “Wollow” credo si intravedesse anche una certa connessione con l’attività di performer e di teatrante, soprattutto nelle canzoni di impianto narrativo: quanto e in che modo questi due elementi rientrano nel processo di creazione musicale?

Quando scrivo/immagino musica, lo faccio quasi sempre in piedi, e penso di dire queste cose a qualcuno. La mia musica è una cosa che succede, e succede in un momento. Come il teatro: è una cosa che accade una volta soltanto, è un messaggio che si può riprodurre ma non è mai uguale ogni volta che vai in scena. Dire le cose, cantarle, come se fosse la prima volta davanti al loro diretto interessato. Questo è il processo.

C’è qualche desiderio particolare che vorresti realizzare in futuro?

Imparare il cinese e il clarinetto.

Sarà possibile ascoltarti dal vivo prossimamente?

Insieme ad un team composto da un produttore, un videomaker, un grafico e un regista teatrale, parallelamente al disco, stiamo lavorando ad una produzione live multimediale. Il resto non posso rivelarlo ancora!

Grazie Beercock per essere stato con noi! Questo ultimo spazio è per te: saluta i tuoi lettori!

Ci vediamo alla fine della curva, no?