CARMELO PIPITONE: “I 40 anni sono un trauma, arrivano all'improvviso”
Carmelo Pipitone immortalato da Carol Alabrese.
Carmelo Pipitone immortalato da Carol Alabrese.

CARMELO PIPITONE: “I 40 anni sono un trauma, arrivano all’improvviso”

Oggi intervistiamo Carmelo Pipitone. Ciao Carmelo, è un piacere scambiare finalmente due parole con te! Iniziamo l’intervista secondo le migliori tradizioni di Music.it. Raccontami un’esperienza particolarmente imbarazzante che hai vissuto in questi anni da musicista.

In realtà ne ho una in particolare, riguardante un concerto di parecchi anni fa. Si trattava di un centro sociale a Venezia, un posto fantastico. Se non erro si chiamava Rivolta. Ho incrociato degli amici e ho passato un pomeriggio alcolico abbastanza imbarazzante. A inizio concerto ero completamente sbronzo. Mi si è rotta una corda, quindi ho preso la chitarra, l’ho spaccata a terra e me ne sono andato. Più imbarazzante di così non credo ci sia altro per un musicista. È una cosa che ancora oggi pago, nel tempo. Nel senso che la chitarra è lì ferma, a ricordarmi che mai bisogna essere così stronzi nella vita (ride).

Prima di parlare del tuo album, vorrei parlare di te. Raccontami come è nato l’artista Carmelo Pipitone.

La mia inclinazione nei confronti della musica c’è sempre stata, e la definirei grottesca. Ho sempre avuto bisogno della musica e del mio strumento. Una volta che ho scelto la chitarra, si è sviluppato una sorta di strano idillio, appunto grottesco. Non dico tanto per dire: il più delle volte odio suonare mettendomi troppo in mostra. Mi piace scrivere, mi piace buttare giù delle idee, ma l’esibizione live un po’ mi intimorisce, è sempre stato così. Però questo tipo di rapporto è una sorta di livido che mi piace accarezzare, mi sono fatto male ma mi piace comunque questo dolore.

Da spettatore, presente a diversi tuoi concerti, non si direbbe…

E invece è così! Negli anni ci ho dovuto lavorare. Bisogna entrare in quella mentalità, facendo i tuoi ragionamenti, e cercando di non pensare al momento dello spettacolo. Dal momento in cui si sblocca questo processo diventa tutto più fluido. È il prezzo da pagare per un musicista. Non è un lavoro che possono fare tutti.

Quali sono gli artisti che hai sempre seguito, dall’inizio della tua carriera?

Quando ancora vivevo a Marsala, un mio amico mi fece ascoltare “Pink Moon” di Nick Drake. Non sapevo nulla di questo artista. Pensavo fosse ancora vivo, tanto lo sentivo attuale. Dicevo: “Cazzo, finalmente qualcuno che suona la chitarra in maniera particolare”. Intuivo che c’era qualcosa di strano nel personaggio, di romantico, legato ad una vita borderline. Mi ha dato modo di affinare le mie tecniche con la chitarra, come il finger picking. Mi colpì come un fulmine a ciel sereno e mi sistemò la situazione. Detto ciò, ho sempre ascoltato metal di qualunque tipo. Cose molto dure senza praticamente mai approcciarmi alla musica leggera, a parte piccole cose, come Ben Harper. Arrivo dai Pantera, dai Metallica, dai Testament. Ero veramente un metallaro di merda! Ancora adesso me li vado a riascoltare con piacere e penso che la mia scelta non sia stata poi così sbagliata.

Devo dire che ascoltando il tuo modo di suonare, per le orecchie più esperte risulta chiaro come il tuo approccio alla chitarra acustica sia molto più duro da quello standard.

Guarda, la scelta della chitarra acustica nasce dal desiderio di mettermi alla prova. Ero ancora in Sicilia, a 12 o 13 anni, e suonavo già da un paio d’anni. Ascoltai suonare un mio carissimo amico, bravissimo con la chitarra elettrica, suonarne una acustica. Non aveva assolutamente la stessa maestria dimostrata con l’elettrica. Lì ho pensato “io non voglio essere così, io voglio davvero spaccare il culo suonando l’elettrica”. Quindi mi sono imposto di fare qualche anno di acustica per poi tornare all’elettrica con cognizione di causa. Ma non è mai successo. Non riesco più a suonare l’elettrica, anche se ogni tanto lo faccio, come nell’ultimo lavoro. La uso dal vivo. È uno strumento che sto ancora studiando. Ci guardiamo da lontano e ci studiamo vicendevolmente.

Fino ad oggi abbiamo un ampio percorso nella tua carriera. Dai Marta sui Tubi, alla superband O.R.k. fino ai Dunk. Quanto hanno influito su di te come artista?

Tutti i gruppi in cui ho militato hanno forgiato quello che sono adesso, e mi viene da citarli tutti perché ognuno di loro ha portato qualcosa. Con i Marta sui Tubi ho imparato l’istintività nel buttare giù idee e vedere cosa succede, cosa che è rimasta una peculiarità del mio modo di scrivere. Con gli O.R.k. ho apprezzato la serietà degli americani e degli inglesi. C’è tantissimo da imparare. L’umiltà che dimostrano nell’essere musicisti, che gli italiani dovrebbero imparare. I Dunk, invece, mi hanno dato quella pace interiore che ti fa capire che la musica è un cazzo di divertimento e dovrebbe essere presa così. Non alla leggera ma comunque con il cuore in mano.

A tal proposito, quali sono le differenze tangibili tra il panorama nostrano e quello estero? Che differenze ci sono tra le tecniche di composizione e i metodi di lavoro?

I processi sono abbastanza differenti. Gli O.R.k. suonano a distanza, dato che viviamo in paesi diversi. Ci vediamo giusto per il tour o per registrare qualcosa. Spesso ci mandiamo dei file, esattamente come l’epoca impone, e meno male che questa cosa si può fare! Con gli altri ovviamente ci si vedeva, si conviveva e ci si confrontava l’uno davanti all’altro. Un rapporto più umano. Non dico che quello con gli O.R.k. non sia umano, ma è una nuova evoluzione, figlia di questi tempi, e ci sta. Poi quando ci vediamo, praticamente facciamo tre giorni in full immersion a provare e ci divertiamo come matti. Io lì sono il più imbecille di tutti, nel senso che son quello che gioca facile. Ho alle mie spalle dei grandi come Pat Mastelotto, Colin Edwin e poi Lorenzo Esposito Fornasari… che te lo dico a fare? È vincere facile.

Tra le collaborazioni italiane, puoi annoverare quelle con tre mostri sacri della musica. Iniziamo da quella con Lucio Dalla. Riesci a dire in poche parole cosa ti ha lasciato?

Lucio Dalla mi ha lasciato qualcosa che ancora oggi mi fa commuovere se mi guardo indietro. Credo di aver conosciuto una grandissima persona, un modo di porsi umano, strafottente, brillante, gioioso e sempre sul pezzo. Io l’ho conosciuto solo negli ultimi anni della sua breve vita, perché poteva dare ancora tantissimo. Non ha mai fatto pesare il suo grado, mentre avrebbe potuto. Una volta lo chiamai maestro, lui mi guardò e mi disse “Ma che cazzo mi chiami maestro?”.

Cosa ci dici, invece, del tuo conterraneo Franco Battiato?

È un’altra persona molto piacevole. Passare il tempo con lui mi ha insegnato altre dinamiche su questo mondo della musica, che visto da fuori è anche troppo distorto. Franco Battiato è una delle persone più divertenti che abbia mai conosciuto finora. Battuta facile, sempre sul pezzo. E poi da siculi quali siamo, c’è sintonia.

E di Enrico Ruggeri?

Enrico Ruggeri è un altro artista che mi ha sorpreso. Sembrava un tipo con molte sovrastrutture, mentre in realtà puoi parlarci di tutto. Una persona molto colta, un artista di quelli vecchio stampo. In questo momento storico sono veramente pochi. Un approccio alla musica diverso: a loro piace stare lì e divertirsi.

Ci siamo scaldati, finalmente veniamo a “Cornucopia” il tuo lavoro solista. Inizia a parlarmene in due parole.

Cornucopia” è quello che avrei sempre voluto fare, perché pensavo di aver messo da parte un po’ di materiale, molto del quale è ancora inutilizzato. È un insieme di piccole idee sfruttate e spremute fino all’osso che hanno come filo conduttore il passaggio dalla giovinezza all’essere adulti. Io sono da poco un quarantenne e l’ho vissuto come un piccolo trauma, legato al fatto che non potessi fare più il coglione come prima più tutta una serie di sfaccettature. Ho visto la vita in maniera diversa, come se fossi diventato un quarantenne improvvisamente, premendo un pulsante. Per certi versi è stato anche angosciante. Dicono che i 50 saranno la nuova giovinezza, però arriva questa cosa che in maniera inconscia ti dà uno strano brivido, e tu devi essere in grado di gestirla perché insomma la vita va avanti. “Cornucopia” è tutto questo.

Ascoltandolo, la musica è la base del lavoro ma anche i testi sono molto forti. Ho sentito molto la presenza della Sicilia. Quanto ha influito su di te e su questo lavoro?

Me lo dicono in tanti, ma io non lo so, non riesco ad essere oggettivo. In maniera inconscia probabilmente è venuto fuori quel mio lato. Non vivo in Sicilia da parecchio, vivendo tra Bologna e Milano. Qualcosa è rimasto sedimentato, qualcosa di grande. Non vorrei essere un siciliano che fa un disco, ma una persona qualsiasi che in questo periodo storico non ha una vera base. Sicuramente questa cosa è venuta fuori più nella musica, come in “Vertigini a cuore aperto”. che ha un incedere un po’ africano. Sui testi invece affronto la mia nuova versione della vita, molto lucida e se vuoi a tratti anche brutale.

D’altra parte, in “Come tutti” il tema è molto delicato. Sembra andare al di là del personale, nel senso di individuale, con il suo testo.

È stato voluto. Ho vissuto fino a vent’anni in Sicilia e vedevo un continuo sbarcare di persone che fuggivano da casa. Non ho viso degli sbarchi veri e propri ma ho visto persone correre tra i campi. Ho ricordi molto strani e confusi, e mi chiedevo se stessero scappando dall’Africa, dalla guerra e cose del genere. Ho scritto questo pezzo con un mio grande amico, Alex Boschetti, che già aveva avuto modo di scrivere sull’argomento. Gli sbarchi vengono molto trattati dai media e dal governo per mettere paura alle persone, ma ci sono sempre stati. Quindi ho preso la palla al balzo per trattare questo tema dal mio punto di vista, parlando prima di Karim che scappa da sua terra per vedere se riesce a sopravvivere, non vivere. La sua storia è paragonata alla fine del pezzo con quella di un siciliano che lascia la sua terra.

Il tour è iniziato, sei contento di come sta andando? Ma specialmente, tua moglie come l’ha presa?

Il tour sta andando abbastanza bene, siamo all’ottava data mi sto facendo aiutare dal mio fidato amico Nicolas Joseph Roncea. L’ho accompagnato in un paio di tour e mi è venuto spontaneo chiamarlo, ma sta volta non sono io che do una mano a lui, anzi, io lo picchio (ride). Le persone vengono, consapevoli del fatto che parteciperanno ad uno spettacolo particolare, che non è un concerto dei Marta su Tubi o i Dunk, ma una specie di miscuglio molto intimo.

Vedo che stai svagando. Tua moglie come l’ha presa?

(Ride). È un tema attualissimo in questa fase della mia vita. Questo nella vita privata si ripercuote tantissimo, perché stare tanto tempo fuori casa non deve essere facilissimo per le persone che ti stanno accanto. Spesso e volentieri con mia moglie si discute su come fare a sopravvivere a tutto questo. Siamo persone intelligenti e si trova una soluzione. Io manco a lei e lei manca a me, quindi è un casino totale. Essere in tour è come avere vita parallela. Io ho abbracciato questa vita da quando ho iniziato a suonare e ho capito che questa sarebbe stata la mia strada.

Spero che “Cornucopia” sia solo l’inizio della tua carriera solista.

È affacciarsi a su mondo nuovo, mettersi in gioco e vedere come gestisco la situazione. Non l’ho mai fatto in vita mia, quindi vuole essere un esperimento. Al tempo stesso il giochetto mi sta piacendo e quindi, non è il momento di pensare a un secondo capitolo. Rientra nelle priorità non appena ci sarà altro tempo a disposizione.

Arrivano una serie di domande a caldo. La prima: qual è la canzone che non avresti mai voluto scrivere?

È una domanda bastardissima! Ci sono delle cose che non mi piacciono e che non ho scritto io, ma sarebbe da veri infami. Quindi parlerò del mio disco, me la prendo con me stesso. Non avrei mai voluto scrivere quel pezzo che non è entrato nel disco. È ancora inedito. Ti ho fregato!

Incasso. Quella che avresti voluto scrivere tu, o anche rubare?

“From the morning” di Nick Drake. O tirar fuori il riff di “Unbroken” dei Pantera e magari gridarla. Chi non l’ha sognato, se sei un metallaro di merda come me! (Ride).

Abbiamo finito, mi ha fatto davvero piacere questa chiacchierata e ti lascio carta bianca per fare saluti, ringraziamenti, o qualunque cosa tu voglia.

Grazie per questa opportunità. Intanto ringrazio la mia etichetta che è La Fabbrica Etichetta Indipendente di Bologna, ragazzi fantastici! Ringrazio Nicolas che mi accompagna e mi sopporta. Ringrazio mia moglie e i miei genitori, che mi hanno sempre supportato. E ovviamente ringrazio tutti gli amici che mi vengono a trovare quando sono in giro per l’italia, con i quali fa sempre piacere fare quattro chiacchiere.