Il Gruppo Palude ha fatto una scelta molto importante con “Archè”: ha preso l’hard rock e lo ha modellato su di sé in modo attualissimo. La band lombarda ha capito che quel genere è un grumo di colore troppo intenso e ha saputo diluirlo a dovere, conferendogli un gradiente personale. Così il 16 febbraio è uscito il disco d’esordio di questo quintetto ansioso di mostrare il carattere di cui è dotato. Un rock che assume le sembianze di un corpo pronto ad accogliere diverse anime allo stesso momento.
Le chitarre ci sono, la voce sostenuta, a tratti urlata, c’è, i ritmi sono incalzanti come dovrebbero, ma questo al Gruppo Palude non basta. Trovano spazio le tastiere che ricordano alcuni giochi cabinati arcade degli anni ‘90, c’è posto per il rap e vocoder. “Archè” è un disco che nonostante porti un nome così austero e che richiama il mondo dell’antica Grecia, profuma di novità nel campo del rock. Ciclicamente questo è un filone musicale che vuole rinnovarsi, e ogni volta che ci prova il terreno su cui si muove diventa più scivoloso. È sempre più facile scadere nella scopiazzatura, nel già sentito o, peggio, nella fusione casuale di generi. È un qualcosa che a dispetto del suo nome, con quell’hard davanti, deve essere trattato con delicatezza.
“Archè” è un disco che nonostante porti un nome così austero e che richiama il mondo dell’antica Grecia, profuma della novità del Gruppo Palude
Ci riesce benissimo Gruppo Palude dosando acceleratore e freno, sterzando con precisione e se si avverte qualche sbandata, è tutto calcolato e controllato. “Archè”, insomma è un disco che porta un messaggio di ricerca durante una pandemia, con mezzi di tutto rispetto malgrado i problemi della formazione durante la scrittura. “Archè” significa, però, anche inizio. Che è sicuramente un riferimento alla prima pietra della carriera del Gruppo Palude, ma chissà che in un qualche modo forse un po’ retorico non sia un nuovo inizio per la riscrittura dell’hard rock in Italia. Fosse questo uno dei primi frutti buoni dopo il covid-19…