Alzi la mano chi non ha cercato su internet quali sono le fasi del sonno, o cos’è la fase REM. Scagli la prima pietra chi non ha mai, con l’aiuto di Sigmund Freud e la smorfia napoletana, cercato di interpretare un sogno. Ridurre i sogni a uno schematismo logico-razionale, però, significa tradirne il codice sorgente. Come vendere parafrasi per poesia. Alla mente sveglia il dato onirico resterà sempre irrecuperabile. Perché “È un continente perduto”, dice col titolo lo spettacolo tratto dal celebre “La casa del sonno” dello scrittore britannico Jonathan Coe. È una riscrittura raffinata e densa della drammaturga Francesca Caprioli, che ne è anche regista. Che cos’è esattamente quel continente perduto? Nella citazione dal testo originale che dà il titolo della pièce, ciò che resta perduto è il linguaggio stesso. Linguaggio del sonno, linguaggio della veglia e quel linguaggio che, d’altro canto, è la casa dell’Essere.
Lo spettacolo, come il romanzo, si articola in cinque capitoli. Tanti quanti le fasi del sonno, dall’assopimento alla fase REM. Secondo questi scarti la coscienza si accorcia, scompare, ricompare lungo il viaggio di ogni notte. In queste cornici psichiche sono inscritte le due architetture letterarie e teatrali. Costruzioni complesse, intessute ciascuna a suo modo di rette improprie, che si incontrano solo nell’infinito del sogno. Ripercorrere la trama sarebbe un esercizio complesso, ma soprattutto inutile, perché si svolge lungo la convenzionale freccia del tempo. “È un continente perduto” offre invece una possibilità di ripiegamento ai suoi personaggi, che pendolano costantemente tra presente e passato. La scena su cui si muovono è un accatastarsi di tavoli, sedie, oggetti abbandonati, che compongono uno spazio inquietante simile a certe illustrazioni surrealiste. Gli oggetti scenici appaiono e si muovono secondo traiettorie oniriche, non rispondenti alla visione funzionale della veglia.
“È un continente perduto” offre una possibilità di ripiegamento ai suoi personaggi, che pendolano costantemente tra presente e passato.
Siamo in una clinica del sonno, stesso luogo che, dieci anni prima, era uno studentato, dove gli stessi personaggi erano – anzi sono – insieme. Massimiliano Aceti è Gregory, direttore della clinica, morbosamente devoto ai suoi casi. Fra questi c’è Sarah, interpretata dall’ottima Eleonora Pace, studentessa di lettere con difficoltà a distinguere sonno e veglia. Spezzata dall’amore per Veronica, una magnetica Nika Perrone, studentessa di economia e teatrante per passione, e quello per Robert, balbuziente e stralunato inquilino della stessa paradossale clinica-studentato. Carlotta Mangione dà corpo a quest’ultimo, indagandone con grazia androgina il fragile idealismo. Grazie alla virtù interpretativa il suo ruolo diventa perno della vicenda. Rigettato da Sarah, che gli preferisce Veronica, Robert negherà la sua maschilità per assecondarne la preferenza sessuale. I dieci anni che separano i due tempi, ovvero la gioventù dalla maturità, vengono vissuti da Robert come un viaggio-sacrificale di genere in nome dell’amore.
Il suo sogno\incubo è infatti un ritorno all’amore. Più importante della quotidianità è coltivare quel desiderio. Da donna, diviene assistente di Gregory nella clinica, e insieme vi accoglie Terry, l’ottimo Gabriele Anagni, lo scrittore ex-coinquilino dello studentato. Completa il quadro Ruby, giovane paziente dedita al surreale cimento di ripulire la spiaggia vicino alla clinica. Nei suoi panni c’è Paola Senatore, che riesce a farsi piccola e lirica quanto basta per restituire la dimensione rapsodica del suo ruolo di raccordo. A più riprese compare allacciata dalla testa a metri di cavi diagnostici che scorrono fuori dal palco. Ella letteralmente porta, nel suo sonnambulismo, la parola pura del sogno. Una parola che è intrinsecamente trascendente, allacciata ad un fuori come il suo capo addormentato. In questo bacino linguistico ciascuno è solo e insieme al contempo, in una maglia di relazione paradossali.
“È un continente perduto” restituisce alla parola quella dimensione verticale quotidianamente scardinata dal flusso comunicativo e informativo.
Nonostante la ricchezza psicologica e il barocco intreccio di piani temporali, nessun personaggio scade in un ruolo minore. L’amalgama attoriale mira, come la drammaturgia, a portare avanti un rigoroso equilibrio di palco che armonizza le differenze senza limarle. “È un continente perduto” non è comunque uno spettacolo facile. Sin dal testo ispiratore, che può diluirne la complessità grazie alla forma del romanzo. Ore di lettura si possono interrompere e riprendere, di contro alle due ore buone in cui restiamo ipnotizzati, interpellati, commossi, ma sempre fissi alle sedie. In un’unità di luogo e durata che lo spettacolo mira a detronizzare. Un teatro che va controcorrente. Contro i tempi di fruizione sempre più brevi, spesso al di sotto dell’ora. Contro drammaturgie che diradano la sintassi per incontrare soglie d’attenzione sempre più labili. L’esito è felice in forza di un cast costantemente all’altezza della drammaturgia ad alto tasso poetico.
“È un continente perduto” restituisce alla parola quella dimensione verticale quotidianamente scardinata dal flusso comunicativo e informativo. Dà al teatro un ruolo ben chiaro: uno spazio di resistenza che trae ragione da un bacino creativo altro. Quello del sogno, regno del desiderio.