Ciao Flamingo, benvenuti su Music.it! Abbiamo qui con noi Lavinia, voce e chitarra del gruppo. Noi iniziamo le interviste con una domanda di rito. Durante le vostre esibizioni, vi è mai capitato qualcosa di divertente, imbarazzante da raccontarci? In questo momento così difficile e teso per la situazione italiana, può essere utile rompere il ghiaccio raccontando qualcosa di divertente.
Sì, quando abbiamo suonato a Magazzino sul Po a Torino (tra l’altro posto meraviglioso) stavo per iniziare a suonare “Komorebi” – titletrack del disco – e improvvisamente ho dimenticato la posizione del primo arpeggio. Provo una volta, niente. Una seconda, ancora sbagliato. Guardo Iulian Dmitrenco, che all’epoca suonava il basso con noi, disperata, sperando mi guidi con qualche cenno della testa, ma lui mi fissa impassibile senza capire finché non imploro “Iulian, AIUTAMI!”. Nelle risate generali di band e pubblico, Iulian, finalmente, viene in mio soccorso e parte il pezzo. Terribilmente imbarazzante ma è decisamente entrata in top 3 degli inside jokes della band.
Lavinia, “Komorebi” è un album che racconta della tua esperienza a Tokyo. Come è nata l’idea di creare un album ricordo e ispirazione di questi tre anni passati in Giappone?
Diciamo che più che un’idea o uno spunto creativo, si è proprio trattato di una necessità. Pensandoci meglio, scrivo spesso se non sempre per necessità: mi è molto raro di “scegliere” di cosa scrivere, a meno che l’input non arrivi da altri (vedi la canzone natalizia che abbiamo scritto per il mitico Polaroid), solitamente scrivo per ricercare o rielaborare quello che mi succede o quello che osservo. E, dopo gli anni a Tokyo, diciamo che avevo molti pensieri da riorganizzare.
“Tokyo” è la terza traccia dell’album, cosa ti ha lasciato questa frenetica capitale? Quanto il sentirsi alienati, soli in una nuova città ti ha modificato il carattere, ti ha rafforzato?
Premetto che torno sempre molto volentieri a Tokyo: si tratta di una città che mi ha sicuramente segnato ma anche arricchito molto. Quindi, la prima cosa che mi ha lasciato è la voglia di tornare, ma non di tornare a viverci. Perché? Perché è una città, a mio avviso, caratterizzata da una forte incomunicabilità e solitudine, come solo le grandi metropoli sanno essere. Sicuramente gli anni spesi a Tokyo mi hanno profondamente cambiato, prima mettendomi in ginocchio da un punto di vista emotivo e psicologico ma, una volta rientrata, regalandomi una maggiore maturità rispetto a quando ero partita. Credo siano stati gli anni che mi hanno fatto diventare adulta.
La musica e l’arte in generale sono potenti mezzi di riflessione ma anche di svago e intrattenimento. Se i Flamingo dovessero scegliere una parola per descrivere cosa rappresenta per loro la musica, cosa direbbero?
Posso sceglierne due? La prima, e forse la più importante, è “ricerca”. Della propria identità, ricerca di comprensione, ricerca di limiti per infrangerli.
La seconda sarebbe “condivisione”: come la musica di altri mi ha spesso aiutato a non sentirmi sola e a capire che altre persone provavano le stesse cose che provavo io, mi rende sempre felice sapere che a volte la musica di Flamingo riesce a fare lo stesso. “Condivisione” è poi anche quello che esiste tra Giacomo Carlone, produttore e batterista di Flamingo, la sottoscritta, e le altre persone che sono parte del progetto: non creiamo solo insieme, ma siamo anche amici che si prendono cura l’uno dell’altro.
Il vostro sound è mutevole. A tratti rock, a tratti più acustico. Quali sono i vostri artisti di riferimento?
A livello musicale abbiamo gusti molto eterogenei, ma quello su cui tutti concordiamo è che ci piacciono gli artisti e le band che hanno un’attitudine molto spiccata. Sicuramente un artista che ascolto da più di 15 anni e che mi ha aiutato a sbloccarmi e ad osare da un punto di vista musicale e performativo è Nick Cave. Adoro inoltre Patti Smith, un esempio di creatività famelica e di scrittura musicale con finalità catartiche, in cui mi riconosco molto. La lista poi sarebbe lunga, quello che mi sento di dire è che il 99% delle influenze che ci portiamo dietro agiscono in modo inconsapevole, ci entrano sotto pelle e riemergono quando meno ce l’aspettiamo.
Qual è quell’album che ascoltereste in loop? Senza fermarsi mai? L’album che considerate vostro manifesto musicale.
Rispondo per me: ci sono due dischi che ho letteralmente avuto in loop per i miei due anni successivi all’esperienza giapponese. “These Four Walls” dei We Were Promised Jetpacks e “Hope Fading Nightly” dei Tellison. Sono passati da essere album in cui mi accoccolavo nei momenti in cui ero più sconsolata a manifesti da cantare fiera a squarciagola. L’ultimo concerto dei Tellison che ho visto è stato anche la colonna sonora di un incontro che si sarebbe rivelato molto importante per me, e mi piace pensare che siano stati due dischi che hanno accompagnato un cerchio che si sta in qualche modo ricongiungendo.