È difficile scrivere una recensione di “Fosse”. Provo a farlo a ben due giorni dalla visione dello spettacolo. Non vi garantisco la buona riuscita del pezzo. Vi consiglio di leggere quello che Emanuela Colatosti ha scritto a Maggio. Probabilmente io non ho ancora somatizzato l’esperienza. Più che uno spettacolo, il testo di Enrico Maria Carraro Moda è un viaggio. Parti senza capire la destinazione, arrivi senza capire il percorso. E passi le ore successive a interrogarti. Fai tuo il registro portato in scena, e la prima domanda che riesci a pensare è “Che cazzo ho visto?”. Segue un “Vaffanculo!” dedicato al regista.
Ma andiamo con ordine. “Fosse” è uno spettacolo a due velocità. Da una parte ci sono Enrico Maria Carraro Moda e Federica di Benedetto che urlano. Si sputano addosso le frasi che tutti abbiamo detto o pensato almeno una volta nella vita, costretti in relazioni tossiche. O in semplici relazioni. La violenza della quotidianità viene evidenziata dal particolare modo di buttare la battuta. Che è poi la forma con cui regaliamo le nostre frustrazioni a chi decide di farci compagnia a letto o con la fede al dito. Dall’altra parte Larissa Cicetti e Adele Pani intervengono con maestosa lentezza, per evidenziare il simbolismo dei pochi oggetti di scena.
Più che uno spettacolo, il testo di Enrico Maria Carraro Moda è un viaggio. Parti senza capire la destinazione, arrivi senza capire il percorso.
Il collante fra i due poli è rappresentato da ansiogeni quadri, dove musica e luci enfatizzano il senso di vuoto e l’incomunicabilità delle relazioni. Se il matrimonio è la tomba della passione, è nel fallimento dei rapporti che si celebra il funerale delle proprie incapacità. Lui, perenne indeciso, cerca di evadere dalle donne che gli tarpano le ali e lo costringono nei ruoli di padre, figlio e Casanova. Senza i conflitti familiari e sentimentali a definire la sua ignavia, rimarrebbe l’involucro vuoto di chi non ha mai saputo scegliere. Rimarrebbe solo un corpo da gettare in una delle fosse che ha comprato a buon mercato.
Le fosse diventano l’unico obiettivo da raggiungere, l’unico sollievo che può dare senso alla sua furia demolitrice. Riempire quel vuoto potrebbe annientare il vacuo interiore. O almeno mettere fine a un’esistenza dannosa. Lui, Lei, L’Altra e La Madre interagiscono in quadri surreali che dipingono il male della quotidianità. L’abitudine è una gabbia dove aguzzine si muovono le azioni che i quattro rifiutano di compiere. Basterebbe poco per risolvere i conflitti. Basterebbe affrontarli. Ma dietro ogni “Vaffanculo” urlato non c’è alcuna volontà di mettere un punto. La fine non arriva mai. Viene lasciata intuire attraverso gli applausi e il buio.
Lungi da essere uno spettacolo perfetto, “Fosse” colpisce più per il non detto, per la preistoria della sua drammaturgia.
Lungi da essere uno spettacolo perfetto, “Fosse” colpisce più per il non detto, per la preistoria della sua drammaturgia. La sua visione fa soffrire. Aspetti con ansia che accada qualcosa: una svolta, una bomba. Ma, come nella vita, non esiste alcun climax. Non c’è conclusione né redenzione. Quando si accendono le luci del teatro rimangono solo interrogativi. E il sapore amaro dell’occasione persa. Quella di premere l’acceleratore, di abbandonare l’artificio kitsch in favore di una genuinità fatta assaporare nei primi momenti di messinscena e mai più concessa. Ma rimane la voglia di esplorare il lavoro de I Nani Inani. E forse rivedere “Fosse” per capirlo meglio. O almeno capirlo.
Piccola nota finale: il pubblico in sala ha minato la godibilità della pièce. Raramente ho avuto a che fare con spettatori così sfacciatamente ineducati al rispetto di un’opera. Fa quasi sorridere il fatto che si trattasse di colleghi della stampa e personaggi che, nei più svariati ruoli, orbitano attorno al mondo del teatro. È stato davvero difficile anche solo capire alcune parti dello spettacolo per via di commenti didascalici non richiesti, e evidentemente così urgenti da non poter essere espressi fuori da Spazio Diamante.