Ciao Giusy! Cominciamo parlando di te. Ci vuoi parlare della tua formazione? Come ti sei avvicinata al teatro?
Ho studiato alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, avendo la fortuna di rientrare nell’ultimo ciclo con Luca Ronconi come insegnante. Una fortuna che voglio portare sempre con me. Non tanto per l’adozione del linguaggio specifico del maestro Luca Ronconi, ma per un modo di avvicinarsi al testo e intuirne subito, a pelle, una chiave giusta ed unica. La consapevolezza di aver assorbito questo insegnamento è venuta col tempo, allora non me ne rendevo neppure pienamente conto. Certo sono stati anche anni duri: la scuola è rigorosa, non te ne lasciavano passare una! Ma è giusto così: le regole del teatro sono dure, come è dura la vita. E il teatro deve produrre vita.
La scuola è stata il cardine del tuo percorso? Pensi, in generale, che le accademie siano il luogo privilegiato per la formazione degli attori oggi?
Prima dell’Accademia avevo studiato al DAMS di Salerno, dove in quegli anni è nato il CUT (Centro Universitario Teatrale, ndr) al quale ho avuto la fortuna di essere ammessa e dove ho potuto studiare con Renato Carpentieri. Frequentare un’accademia o una grande scuola non è fondamentale, ma aiuta ad assumere un metodo e una disciplina. Per me, indisciplinata per natura, la scuola del Piccolo è stata fondamentale per mettere ordine e incanalare le energie. Sono stati anni in cui ho consapevolmente ricercato lo sguardo di un maestro, e tanti ne ho trovati oltre a Luca Ronconi e Renato Carpentieri. Per due anni, per esempio, a Napoli ho seguito i corsi di mimo corporeo con Michele Monetta. Dopo il Piccolo sono stata al Centro Teatrale Santa Cristina diretto ancora da Luca Ronconi fino alla sua scomparsa. Ma oggi, a 31 anni, penso che sia tempo di provare ad essere maestra di me stessa.
Uscita dalla scuola che mondo professionale hai trovato? Qual è il percorso che può fare di un’arte una professione?
A Milano, appena finita la scuola, ho avuto non poche difficoltà con le agenzie. Credo perché gli agenti non riuscissero a inquadrare la mia fisicità, e in qualche modo non riuscissero ad addomesticare la mia immagine dentro uno schema. Purtroppo ho avuto l’impressione che questa ricerca di un’estetica appagante, o regolare, venisse prima della qualità della mia recitazione. Penso che troppo spesso il circuito delle agenzie contribuisca a omologare l’offerta artistica e professionale dei giovani attori. Il teatro richiede invece valorizzazione dell’unicità dei corpi, che si costruisce sulle differenze singolari e sulle trasformazioni. Più in generale mi pare che in Italia facciamo fatica a cogliere la dimensione quotidiana e lavorativa dell’attore. Il quale non è necessariamente un artista, se intendiamo l’arte come una condizione di eccezionalità, ma in primis un professionista.
Sei nata a Salerno, ti sei formata a Milano e ora vivi a Roma. Senti delle differenze importanti, sul riconoscimento della professionalità dell’attore, fra queste tre scene italiane?
Se Salerno e Napoli sono in fermento, e Milano è la città più europea d’Italia anche nel settore teatrale, Roma purtroppo sembra rimasta indietro. Fare teatro qui è difficile: si avverte che dietro le maggiori produzioni, ma in una certa misura anche nell’off, stiano sempre le stesse conventicole. Pur essendo una metropoli, Roma spesso sembra culturalmente chiusa. In generale, in altri paesi europei si sente un’integrazione maggiore fra arte e vita, che innesta il teatro e le sue professioni in contesti inattesi. Capita di mangiarsi un hamburger, e intanto assistere ad una performance in un qualsiasi cafè. Se pensiamo, per esempio, alla Francia, si percepisce subito che al ruolo dell’arte e ai suoi addetti è riconosciuta una utilità pubblica. Il che produce diritti. Ovviamente questa dimensione richiede capacità di trasformazione, ma il mestiere dell’attore è capacità di cambiamento.
Veniamo al tuo eccellente lavoro che hai presentato poche settimane fa al Teatro Studio Uno: “Cesira Scognamiglio”, tratto da “Le Tre verità di Cesira” di Manlio Santanelli, in cui sei attrice e regista. A te la parola.
Mi sono imbattuta nel testo di Manlio Santanelli durante un workshop di Mimmo Borrelli, dove una collega aveva portava un frammento dalle “Tre Verità di Cesira”. Ne rimasi colpita e cominciai a lavorarci su, preparando un monologo da tenere pronto per ogni evenienza. L’occasione è venuta col Premio Hystrio alla Vocazione 2015, dove arrivai in finale. Nel frattempo, mi spostai a Roma per fare aiuto regia con Paola Rota, in uno spettacolo di Cristina Comencini. Così per un po’ ho congelato il testo. Ma forse proprio quell’esperienza mi ha fatto capire che potevo provare a fare a meno dello sguardo di un regista esterno. Che potessi sviluppare il lavoro su “Cesira Scognamiglio” coi miei stessi occhi su di me e sul mio modo di fare teatro. Però non mi sento di parlare di regia. Preferisco parlare di cura della messinscena, una cura che è stata anche cura di me.
Entriamo più a fondo nello spettacolo. Chi è Cesira Scognamiglio?
Per preparare lo spettacolo sono partita dal personaggio. Mi ha subito colpito il fatto che Cesira si offra a una videocamera televisiva, si auto-rappresenti. Aspetto interessante e profetico, considerato che si tratta di un testo degli anni ’90. Cesira ha però una particolarità che balza subito all’occhio. È una donna baffuta. Baffuta, ma molto sensuale nel testo di Manlio Santanelli, che ha una delicatissima visione sull’universo femminile. Curioso che le uniche due messinscene dell’opera vedano degli uomini nel suo ruolo. Ho messo dunque al centro questo desiderio di Cesira di essere vista, poi ho limato i tratti popolari della drammaturgia, o per lo meno li ho messi a servizio di quel nucleo. Su questa direzione mi sono mossa per una conseguente, discreta riscrittura, ovviamente sottoposta a Manlio Santanelli.
Cosa pensi, o vorresti che la tua Cesira lasciasse agli spettatori?
Non vorrei che dica qualcosa in particolare, perché non mi interessa veicolare un messaggio, ma aprire la possibilità di una conversazione con se stessi. Perché fine ultimo del teatro, secondo me, non è l’applauso, ma vedere il frutto di una relazione sviluppata con gli spettatori. Che sono partecipanti con il loro sguardo attivo, con la loro memoria che ricostruisce lo spettacolo una volta a casa. Questa è forse una consapevolezza che mi ha lasciato Luca Ronconi. Ma di sicuro penso che di Cesira resti l’immagine. Una donna coi baffi, quindi una figura irregolare, che ama farsi riprendere senza omologarsi. Questo evoca e contraddice la tendenza di cui parlavo, l’appiattimento delle singolarità dei corpi. La storia di Cesira mi permette di vivere e condividere questa violenza, perché, anche se tocca attori e attrici, come donna è un fenomeno sicuramente più frequente e doloroso. Che riguarda tutti, e di cui si deve parlare.
Domanda di rito. Chiudi gli occhi. È la prima volta che stai in un teatro. Dove sei?
Sono alle scuole medie. Una recita scolastica su una commedia di Eduardo De Filippo, “La farmacia di turno”. Io ero Rafilina, un personaggio secondario. A quel tempo ero timidissima, e salire sul palco mi terrorizzava. Poi, però, quando ho sentito che il pubblico rideva con me, anziché di me, qualcosa è successo. Penso avesse a che fare con la ricerca di identità.
Cesira Scognamiglio, degli Scognamiglio di Montefiascone (Elio Di Pace, 2015)
Tratto da “Le tre verità di Cesira” di Manlio Santanelli, adattato e interpretato da Giusy Emanuela Iannone.