GLOMARÌ: “Le mie canzoni non sono immediate, richiedono una certa attitudine”
La cantautrice Glomarì.
La cantautrice Glomarì.

GLOMARÌ: “Le mie canzoni non sono immediate, richiedono una certa attitudine”

Ciao Glomarì, benvenuta su Music.it! Su queste pagine amiamo gli artisti che si espongono con i lettori. Dunque, raccontaci un aneddoto curioso che abbia come sfondo la tua vita artistica.

Da quando ho intrapreso i miei studi universitari sono sempre stata affascinata dall’Internazionale Situazionista, un movimento socio-filosofico che ha tra i tanti obiettivi quello di ridurre i momenti nulli della propria esistenza inventando situazioni singolari nelle quali auto-coinvolgersi. Proprio per questo a volte, prima di scrivere canzoni – o nel mentre – cerco di farmi investire dall’ispirazione a partire da una di quelle famose situazioni che con dedizione mi costruisco su misura. Vi faccio un esempio. Un giorno, in un pomeriggio di settembre, vidi che una cabina telefonica vicino casa mia sarebbe stata rimossa. Così decisi di organizzarle una festa di addio con tanto di rinfresco, durante il quale regalavo schede telefoniche, in modo che ognuno potesse fare la sua ultima chiamata. Un indiano tentò persino di chiamare i suoi parenti in India. Dopo il party dedicai a quella cabina una canzone intitolata “Testamentu tu tu tu tu tu”.

Quando c’è stato il primo incontro con la musica? Quando hai deciso di battezzarti Glomarì?

Il primo incontro con la musica come cantautrice fu nel 2014, un anno per me molto difficile perché persi mia nonna. La sofferenza mi stimolò a prendere in mano l’ukulele. Scrivere mi permise di esorcizzare il dolore. Mi piace pensare che la musica sia stato il modo con cui la vita mi ha chiesto scusa per la perdita alla quale mi ha sottoposta. Nel momento in cui mi ha tolto una delle cose più preziose, me ne ha fatto scoprire un’altra altrettanto importante, seppur in modo assai diverso. Il nome d’arte Glomarì ha origini remote. È il modo in cui mi chiamava la professoressa di francese delle superiori. Alla fine si tratta di un diminutivo del mio nome vero, ovvero Gloriamaria. Ebbene sì, tutto attaccato.

Ti è capitato di far sposare musica e architettura, la tua prima moglie?

Credo che ogni canzone che scrivo sia figlia – più che moglie – dell’architettura. Quando mi dedico alla musica, mi sembra di lavorare con una spazialità in cui parole, suoni, ritmi, silenzi ed emozioni prendono il posto di muri, materiali, porte, finestre, colori. Proprio per questo mi piace dire di architettare canzoni, non tanto di scriverle.

La linea di confine tra musica e poesia è inesistente. Ma anche quella che la divide dalle arti plastiche non è poi così spessa. Che ambienti vuole disegnare Glomarì in “A debita vicinanza (e dintorni)”, l’album che intendi pubblicare?

“A debita vicinanza (e dintorni)” vuole intrufolarsi nell’universo delle emozioni ibride, quelle indefinite, che spesso si compongono di tante altre emozioni, che mischiano indistintamente quelle felici a quelle più tristi. Vorrei che ascoltare l’album fosse come scoprire un giardino barocco abbandonato e dimenticato, perdersi nella tragica bellezza delle sue rovine e dei suoi labirinti.

Se “A debita vicinanza (e dintorni)” fosse una città, quale sarebbe? Perché?

Credo sarebbe Chignolo Po. Più che una città, è un paesino che si articola lungo una strada. Un posto abbastanza insulso. Tuttavia, se ci si va con lo spirito giusto, vi si possono trovare le più strabilianti meraviglie, come in tutti i luoghi più insulsi. Soprattutto nei luoghi più insulsi. È lì che un giorno vidi una fisarmonica volare. Non per niente, una delle mie più grandi convinzioni è riassumibile in una frase che trovate nel testo della canzone “Filosofia dei panni stesi”:
«La vera eleganza è quando è per sbaglio».

E ora? Progetti per il futuro immediato? Magari un tour?

Ne ho talmente tanti in cantiere che faccio fatica a ricordarli. Senza dubbio pubblicare l’album, ormai praticamente pronto, e terminare la trilogia di video che sto realizzando a partire da tre delle canzoni che ne fanno parte. È un progetto che vuole indagare gli equilibri tra parola, musica e immagine, quasi come si trattasse di poesia concreta. In parallelo al lavoro per l’album, già pienamente in cantiere, sto scrivendo un EP in lingua francese, ballo il tip tap. Sto cercando il modo di inserirlo durante le mie performance live. E ovviamente, sì, vorrei suonare in giro il più possibile per farmi conoscere.

Che tipo di rapporto vorresti instaurare con il pubblico durante un live? Ti fai aiutare da altro oltre alla tua splendida voce e al tuo fedele ukulele?

Le mie canzoni non sono del tutto immediate, richiedono una certa attitudine, dove per attitudine intendo sensibilità. Raccontano aspetti della mia personalità molto intimi. Per questo amo esibirmi in contesti culturali ben precisi, circoscritti a un numero relativamente limitato di persone con le quali poter interagire durante e dopo il concerto. La cosa che noto sempre con grande piacere è che quando arrivo a qualcuno, lo faccio in modo intenso. Diverse volte mi è capitato di commuovere gli spettatori, e di commuovermi con loro. Alcuni di loro mi hanno ringraziato di persona. È molto bello quando accade. Durante i live la mia strumentazione per ora è molto minimal. Si limita a voce chitarra e ukulele. In una paio di brani pure l’handpan. Voglio dare spazio all’ascolto dei testi, l’elemento portante della canzone.

L’album, però, è stato arrangiato con una strumentazione più ricercata.

Infatti. È arricchita da violino, violoncello, pianoforte, flauto, corno francese, armonica e glockenspiel. Spero in futuro di aver modo di esibirmi con questa formazione. La prima e unica data che per ora abbiamo fatto tutti insieme è stata molto apprezzata. Uno del pubblico ci ha paragonati a un negozio francese di giocattoli antichi.

Cara Glomarì, è giunto il momento dei saluti. Grazie per essere stata con noi. La chiusura è rilasciata alla creatività dell’artista. Ciao!

Bene, vorrà dire che chiuderò con la mia parola preferita: Disagio. L’ho scritto con la lettera maiuscola perché si tratta di un nome di personcina, vale a dire quello di un pupazzetto a quadretti che porto sempre con me. E come un giorno mi fece notare un pellegrino vestito di blu incontrato per caso lungo la via Emilia: «Ci hai mai fatto caso che la parola disagio contiene la parola gioia?».