Il “Maximilien” in copertina,opportunamente ritoccato con pennarelli fosforescenti, è una chiara dichiarazione artistica per i The Manifesto. Il richiamo è dadaista, al padre dei ready made Marcel Duchamp. Ma la band non sembra voler dissacrare il quadro di Julien Lasbleiz per restituire dignità artistica a un’opera che vien detta ‘bella’ per abitudine. Le migliorie aggiunte dai The Manifesto, piuttosto, completano in qualche modo l’analisi fatta da scienziati sulla maschera funeraria del rivoluzionario francese. O ancora: come la digital artist va a correggere la versione paffuta di Philippe Froesch, così le linee gialle e arancioni vanno semplicemente a svelare una parte di “Maximilien” de Robespierre che altrimenti non risulterebbe visibile agli occhi.
In “Maximilien” i The Manifesto non cantano l’esito della rivoluzione, ma lo fanno sentire attraverso surreali architetture sonore
E allora non bisogna aspettarsi niente di diverso dal punk, almeno per iniziare. Nonostante le atmosfere dark à la Joy Division e nonostante i richiami alla Rivoluzione Francese, però, la musica dei The Manifesto non esplode. La metrica, infatti, sembra mutuata dal rock classico dei Dire Straits. Risulta originario dall’Inghilterra anche il gusto per la psichedelia, costruita analogicamente, che emerge in tracce come “Robespierre”, “Weekend” e “When We Made The Stars Together”. Che la rivoluzione pensata dai The Manifesto sia Gloriosa, proprio come quella inglese? In effetti, almeno dal punto di vista armonico e melodico, le 8 tracce di “Maximilien”, descrivono uno sviluppo e poi un avvitamento a partire dalle distorsioni in chiusura di “Robespierre”.
Non solo Dada non è morto, ma i The Manifesto l’hanno tradotto in punk, con scure sfumature doom
Psichedelia e distorsione sono dosate con gusto ed equilibrio. Le dissonanze tra le due linee vocali sono ricomposte dalla sezione ritmica, come in “Precious Time”. Per essere surrealisti fino in fondo, imbevono i testi di simbolismo tratto dalla poesia italiana e francese. Dunque “Maximilien” non dà indizi sull’esito della rivoluzione, ma è la composizione musicale a farsi rivelatrice. Dalla prima all’ultima traccia si assiste alla ricostruzione di un rock pulito, epurandolo da ogni possibile sfumatura math. La limpidezza della sei corde in “The Corridor” fa quasi presagire una restaurazione del rock classico, distante anni luce dall’energia polare da “Robespierre”. Un progetto interessante quello dei The Manifesto, che merita di essere ascoltato e seguito con attenzione. Soprattutto per scoprire l’esito del loro contributo alla rivoluzione.