Erede artistico di Kubrick e seguace tematico di Scorsese, Paul Thomas Anderson, il più off Hollywood dei registi statunitensi, ha dimostrato negli ultimi vent’anni di meritare appieno l’appellativo di autore. Sin dal catartico “Magnolia” (1999), il regista ha infilato una perla dopo l’altra in una filmografia che, di film in film, è divenuta un gioiello prezioso. A fare da gancio solido e inamovibile in questo percorso autoriale valoroso è la sua ultima opera, che si aggiunge alle precedenti per l’alta caratura registica e, al contempo, vi apporta luminose sfaccettature inedite.
A quattro anni da “Vizio di forma” (2014), “Il filo nascosto” conferma la svolta matura di Paul Thomas Anderson, inaugurata con “Il petroliere” (2007), per riproporci un discorso grave sul Potere. Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis al suo congedo attoriale) è uno stilista eccellente della Londra del dopoguerra. Il suo atelier, gestito con la sorella Cyril (Lesley Manville), veste l’alta società britannica e le famiglie reali di mezza Europa. È un successo fatto di rinuncia e abnegazione quello di Reynolds, salvo concedersi la compagnia di giovani muse, subito lasciate ad appassire in balia dei suoi dogmi, o delle sporadiche fughe in campagna. Durante una di queste l’uomo incontra Alma (Vicky Krieps), giovane cameriera di bellezza vittoriana che si introduce nella sua vita fino a sconvolgerla.
“Il filo nascosto” conferma la svolta matura di Paul Thomas Anderson, inaugurata con “Il petroliere” (2007), per riproporci un discorso grave sul Potere
Due ore e dieci di abbondante eleganza mascherano, dietro l’accessibile forma melodrammatica, un film di stratificata complessità. Come i messaggi che il protagonista cuce negli orli delle sue creazioni, “Il filo nascosto” ci priva di qualsiasi certezza, nega le soluzioni lineari e, piuttosto, ribalta la lettura immediata esigendone altre più profonde. Certamente si tratta del film meno maschile di Anderson che, inaspettatamente, inverte il rapporto uomo/donna facendolo coincidere con il climax narrativo.
Se nella prima metà del film quasi infastidisce l’asservimento di Alma a Reynolds, il suo procrastinare la fuga e il perdurare della relazione vessatoria, nella seconda parte il film si spoglia, lasciando sul pavimento masochismo e misantropia. Quella raccontata da Paul Thomas Anderson è la storia di un amore malato fatto di sentimenti che si ravvivano nella patologia e che il regista posiziona dentro una riflessione più radicale sulla perversione dello stare insieme. La coppia si indebolisce nella lucidità mentale e si rigenera precaria nel dolore.
Il desiderio dell’altro è un fantasma, un’apparizione avvelenata che, quando si sostanzia, infastidisce come una sorpresa non contemplata e stride come un coltello che imburra del pane. Reynolds dipende dalla Donna, dalla sorella che chiama “spina nel fianco” – a rimarcare la natura sofferta degli affetti – come da Alma, una crepa irrimediabile nella rigida routine dell’uomo e, da questa frattura, sgorga il potere: in esso la donna si fortifica per guadagnare fierezza ed ergersi sull’uomo che, nelle sue mani, vivrà e rivivrà a seconda del proprio volere. Da un trauma subito – quello materno – a un trauma voluto e finanche necessario. Trauma è ferita, trauma è sogno.