Due anni fa Gastón Duprat aveva fatto il proprio exploit nel concorso veneziano con “Il cittadino illustre”, gioiellino satirico e di grande acume che gli aveva procurato il plauso unanime della critica e la Coppa Volpi per l’attore protagonista. Quest’anno il regista argentino si è riaffacciato al lido per presentare out competition “Il mio capolavoro”. Un film che affonda nella stessa atmosfera culturale del primo variandola dalla letteratura alla pittura. Pur perdendo qualche punto in termini di incisività, il film ribadisce il registro entro cui il regista sudamericano si muove con dimestichezza e appeal per il pubblico europeo. Inscenando la storia di una rischiosa frode nel mondo dell’arte e lavorando in parallelo la materia di un buddy movie, “Il mio capolavoro” costruisce un palcoscenico prestigioso per i due interpreti. Correndo all’impazzata tra i generi, tensione, dramma, emozione, ma anche humor, diventano materia di una commedia poco consapevole di non esserlo.
Arturo (Guillermo Francella), un gallerista affascinante, raffinato e spregiudicato, è il titolare di una galleria d’arte di Buenos Aires. Renzo (Luis Brandoni), un pittore cupo, un po’ selvatico e in evidente declino. Detesta i rapporti sociali e vive quasi in povertà, supportato dal suo unico assistente Alex (Raúl Arévalo), un giovane aspirante artista. Sebbene il gallerista e il pittore siano uniti da un’amicizia di lunga data, si trovano in disaccordo quasi su tutto. I loro mondi e le loro idee sono diametralmente opposti, il che è fonte di gravi tensioni e conflitti. Il gallerista riesce ad affiliarsi a una collezionista internazionale, Dudú (Andrea Frigerio), e insieme cercano in tutti i modi di rilanciare la carriera artistica di Renzo, ma le cose vanno di male in peggio. Fino a quando hanno un’idea folle molto rischiosa ma che potrebbe rivoluzionare il mondo dell’arte e cambiare le loro vite per sempre.
“Il mio capolavoro” avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi altro campo, dall’aula di un tribunale a un campo di calcio.
“Il mio capolavoro” avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi altro campo, dall’aula di un tribunale a un campo di calcio, proprio perché confida (troppo) sull’universalità delle domande che pone. Cosa succede a qualcuno che è geniale, che ha avuto un meraviglioso momento di gloria, ma che non vuole stare al passo con le ultime tendenze e, quindi, finisce emarginato? È un argomento all’ordine del giorno nel settore delle nuove tecnologie e di internet, ad esempio. Una caratteristica peculiare che rende diverso il mondo dell’arte è che, a volte, bisogna morire per diventare famosi, o che solitamente si trasforma per opera un genio incompreso. Qualcosa che sarebbe condannabile in un altro settore potrebbe trovare uno spazio privilegiato di credibilità nell’ambiente artistico. Proprio quello che accade nel film, quando quella che viene considerato una grande truffa si rivela essere una performance creativa e perfetta.
«L’arte è una frode», dice Renzo ad un certo punto. Una frase provocatoria espressa dal pittore, il quale trascorre il suo tempo suggerendo idee estreme e inquietanti con l’unico scopo di annoiare. Come gli spettatori scopriranno nel corso del film, Renzo e Arturo hanno costruito una parabola discente, sottobraccio certo, ma pur sempre calante. Renzo è passato dai giorni di ribalta degli anni ’80 a un oggi che lo vede indietro di mesi con l’affitto della sua sudicia casa di Buenos Aires, piena di cianfrusaglie, animali domestici e bellissime tele che continua a dipingere. Poi c’è Laura (Maria Soldi) che, per quanto ne sappiamo, dovrebbe essere la sua fidanzata. Tuttavia, le dimostrazioni d’affetto sono più simili a quelle di un amore appassito. Basti pensare che la donna quasi sbuffa poco prima di cominciare l’ennesimo rapporto sessuale con un uomo che ha inghiottito un’altra delle sue pillole blu.
La disparità tra le due linee narrative conferisce un’instabilità costante al “Il mio capolavoro”.
Renzo è il nichilismo incarnato ed è per questo che ci fa ridere: perché è insopportabile. Preoccupato, amareggiato, disilluso, truffaldino, vanitoso, capriccioso. E se dimentichiamo altri appellativi, questi vanno ricercati tra la tirchieria e la bancarotta. Ma è abbastanza per farcelo odiare? È un individuo che nessuno vorrebbe invitare a una festa o avere tra gli amici. Eppure non solo ha le amanti più carine, tanto belle quanto superficiali; nel baratro della sua decadenza artistica c’è pure chi come Arturo gli tiene la mano – non senza accigliarsi. Quali legami indissolubili li uniscono così profondamente? Quelli di uno squalo e del suo pesce pilota? O quelli di un’amicizia testarda e sincera, ma che sembra aver raggiunto le ultime battute? Il vecchio orso malamente agghindato sta fermo sulle sue posizioni come una quercia pronta a spezzarsi piuttosto che piegarsi, senza preoccuparsi di trascinare giù con sé i suoi fedeli alleati.
Probabilmente è la disparità tra le due linee narrative a conferire un’instabilità costante al “Il mio capolavoro”. Se da un lato l’amicizia tra i protagonisti funziona pur senza momenti di entusiasmo irresistibile, dall’altro la svolta che colpisce la linea artistica è abbastanza prevedibile e la si potrebbe anticipare molto prima, semplicemente stando attenti a come si svolgono gli eventi. Sempre sulla linea sottile tra ciò che critica e ciò che viene criticato, il film sbiadisce lentamente. Sullo sfondo, una commovente e appariscente Argentina, un paese avvolto in quello che sembra una positività disincantata; a meno che non lo si consideri pessimismo ottimista. Non c’è ancora una parola che descriva ciò che sta tra la nostalgia straziante e l’ironia resiliente. Ma forse a poco serve trovarla perché «quando un intero paese mette il culo davanti alla TV per guardare 22 milionari correre dietro un pallone, è senza speranza».