In un Teatro Argentina affollato di (troppo) vocianti scolaresche è andato in scena “Il viaggio di Nicola Calipari”, una pièce cupa ed essenziale sulla vicenda che, dal sequestro di Giuliana Sgrena, ha portato all’uccisione di Nicola Calipari, agente del SISMI. Nello spettacolo si rinnova il connubio fra teatro e cronaca, in tal caso sul tema di una vicenda che non ha mai visto un compimento giudiziario. E siccome i colpevoli sulla scena di un tribunale non ci sono mai passati, ci pensa il teatro a mettere a confronto vittime e carnefici, accusatori e imputati. Tutti mescolati nei corpi di Fabrizio Coniglio e Alessia Giuliani, registi e interpreti dell’opera. Così, letteralmente, il processo mai avvenuto prende piede sul palco nero, come listato a lutto. Che è il lutto per la morte dell’agente italiano, quanto, e forse più, per l’esclusione della verità dall’orizzonte della storia.
Ora, premesso quanto lodevole sia l’intento, nonché necessario portare il soggetto all’attenzione del pubblico, apriamo una riflessione sulla modalità adottata. Va detto subito che Fabrizio Coniglio e Alessia Giuliani non difettano di bagaglio tecnico. Sfruttano sapientemente una scenografia scarna, pressata sul boccascena, come a incrementare il senso di incombente minaccia. Il sipario calato alle loro spalle sembra comunicare il loro essere al di qua della finzione. Un teatro-verità dunque, che però non rinuncia alle caratterizzazioni. Il personaggio di Giuliana Sgrena è ritratto nella sua debolezza, senza mai andare oltre il pur comprensibile sentimento. Quanto al soggetto del dramma, Nicola Calipari è esaltato nel suo spirito di fedeltà allo Stato e alla famiglia. Maneggia a più riprese un pallone di cuoio, che si rivela essere un cadeau pensato per il figlio sulla via del ritorno. Fabrizio Coniglio lavora dunque la materia umana dell’agente assassinato sottolineandone la calorosità semplice e devota.
Dovrebbe essere “Il viaggio di Nicola Calipari”. Termine che evoca perlomeno uno sviluppo, che però non accenna ad avvenire.
Ma entra nel personaggio per una via che non porta all’empatia, né emotiva, né civica. Eppure dovrebbe essere “Il viaggio di Nicola Calipari”. Termine che evoca perlomeno uno sviluppo, che però non accenna ad avvenire. Lo stesso Fabrizio Coniglio incarna la controparte del destino di Nicola Calipari, ossia Mario Lozano, soldato statunitense che premette, senza risparmiarsi, il grilletto. Il personaggio è parimenti scarno, una piccola equazione nata e morta nel suo ruolo omicida. Militarista e patriota, devoto alla guerra. Un cattivo che non riesce a suscitare alcuna emozione, per mancanza totale di crepe emotive. Crepe che, a dire il vero, mancano in tutta la pièce. Mancano anche ai ruoli femminili: Alessia Giuliani è Giuliana Sgrena, ma anche la vedova di Nicola Calipari e l’accusa del virtuale processo. Ma i frequenti cambi di personaggio, che potrebbero incardinare parallelismi, tensioni, simboli, restano appesi alla banale regola dei ruoli femminili-maschili.
La necessità di cambiare spesso pelle imporrebbe due approcci antitetici. Un cambio traumatico di corpo-voce-gesto o, all’opposto, l’adozione di un’interpretazione monolitica, che esalterebbe la diversità dei ruoli sull’identità dello sfondo interpretativo. Nel primo caso, si avrebbe l’impressione di una molteplicità fatta di tanti attori, nel secondo di tanti personaggi in due soli attori. Sospesi tra i due poli, i caratteri sfumano debolmente, creando cesure ambigue che smagliano il ritmo. Il risultato, purtroppo, conduce alla noia. È un vero peccato, considerando il palpabile cimento etico che muove “Il viaggio di Nicola Calipari”, e la presenza scenica indubitabile dei due attori. Azzardiamo l’idea che il bagaglio di Storia e di storie evocato sia troppo denso per uno spettacolo di un’oretta. L’inferno di un rapimento, una tragedia inattesa con note da spy-story, la pantomima delle nazioni. Il tutto sullo sfondo di una guerra ingiusta. Ecco, sembra quasi intavolata la possibilità di una trilogia.