IRENE GRANDI: "Non sono miliardi i miei fan, ma quelli che ho sono proprio belli"
Irene Grandi in una foto di Marco Lanza
Irene Grandi in una foto di Marco Lanza

IRENE GRANDI: “Non sono miliardi i miei fan, ma quelli che ho sono proprio belli”

Diamo il benvenuto a Irene Grandi su Music.it. Noi apriamo sempre con una domanda di rito che facciamo a tutti quanti gli artisti. Da te, con 25 anni di carriera alle spalle, ci aspettiamo qualcosa di particolare. C’è un momento che ricordi particolarmente imbarazzante avvenuto sul palco? Uno di quelli in cui saresti voluta scendere e scomparire.

Allora, vediamo quale posso scegliere (ride, ndr). Una cosa che mi viene in mente, un po’ simpatica, riguarda il terrore che accomuna tutti quelli che salgono sul palco: scivolare e cadere per terra. Fortunatamente mi è successo poche volte. Sono caduta almeno due, ma una me la ricordo proprio bene perché era a una data zero. Per un inizio coi fiocchi.

Il classico inizio col botto!

Mi ricordo che c’era questo palco che aveva una piccola scaletta trasparente, in plexiglass, che faceva trasparire una luce per dare un effetto spettacolare. Immagina l’arrivo di un astronauta. Il concerto iniziava con “Boom boom”. Io dovevo salire sulla scaletta e, dopo l’accensione della luce, cantare: «Il lavoro fa…». Non ho fatto in tempo a dire “male” che ero per terra. Hai presente quando c’è la guazza (ndr: umidità)? Probabilmente non avevano fatto in tempo ad asciugare il plexiglass, quindi era scivoloso. Sentivo il pubblico che rideva, giustamente. E naturalmente ci ho messo un po’ a riprendermi dall’imbarazzo di questa uscita clamorosa. Mi ricordo che mi facevo indietro e imprecavo. Cantavo, e non appena avevo una pausa: «PORCA T***A!» (ride, ndr).

E oggi, invece, se ti dovesse ricapitare una cosa del genere dopo 25 anni di concerti e palchi, saresti il tipo che scivola e si rialza come se nulla fosse?

Anche quella volta mi sono rialzata come se nulla fosse. Però no. Credo che imprecherei ancora se dovesse accadere di nuovo una cosa del genere (ride, ndr).

Ottimo! Adesso, per quanto possibile, vorrei fare un riassunto della tua carriera. Partiamo dall’infanzia: come nasce Irene Grandi. Chi era prima di diventare una cantante? C’è stato un momento in cui andava a scuola e ancora non sapeva che avrebbe fatto questo per la vita?

In realtà già cantavo da piccola. Un po’ come le cantanti americane, però con una musica meno bella perché cantavo in chiesa. Ero molto piccola, facevo le elementari. Mi ricordo che la domenica mattina mi alzavo e iniziavo a prepararmi perché dovevo andare a messa a cantare. Non c’era una volta in cui qualcuno non si svegliava, perché mi sentivano muovere. C’è stato, poi, un periodo di pausa. Dai 13/14 anni fino ai 17 mi sono allontanata dalla chiesa. Non sono andata a scuola di canto come tipologia di approccio, ma ho avuto delle band tra la fine del liceo e all’inizio dell’università. Sono stata autodidatta. Parecchio autodidatta. Nonostante le piccole pause il cantare mi accompagnava spesso, anche con le mie amiche. Ne ho conosciute diverse alle medie, al mare, e si andava in giro a passeggio cercando qualcuno che sapesse suonare per cantare tutti assieme. Questa vocazione mi ha sempre accompagnato.

Di collaborazioni ne hai avute tantissime, dappertutto e con la maggior parte degli artisti italiani. Ma quali erano quelli con cui, da piccola, sognavi di cantare o duettare, e coi quali alla fine sei riuscita a collaborare?

Quelli con cui sono riuscita a cantare sono Pino Daniele, Jovanotti – col quale non ho proprio cantato, ma mi scrisse un pezzo, quindi una collaborazione. Naturalmente Vasco Rossi, che nel mio disco dell’anno scorso “Lungoviaggio” – quello un po’ alternativo – ha fatto un cameo in un video, quasi un duetto. Mi ha fatto vedere che ci tiene, è stato un regalo davvero generoso da parte sua sposare quel mio progetto da piccoli numeri. Sicuramente Loredana Berté, che mi piaceva da quando ero piccola, e Sananda Maitreya, della quale facevo cover sin da ragazzina.

Come vedi il tuo ultimo lavoro, “Grandissimo”? È più il raggiungimento di un obiettivo o una nuova partenza?

Volevo che venissero fuori tutte queste sfaccettature, proprio come fossero tesserine di un mosaico, dei percorsi che ho fatto in questi anni. Il mio amore per la musica black, il rock un po’ più spinto, e dall’altra parte il pop un po’ più commerciale. Volevo che tutte queste sfaccettature si integrassero, così da formare il mosaico che alla fine mi rappresentasse nel suo insieme, come un ritratto. Anche l’interesse nella ricerca di artisti sempre diversi coi quali collaborare è servito molto, è diventata una mia caratteristica. Come fare un disco di Natale e un pezzo con Francesco Bianconi nell’arco di un anno; una cover di Mina e un pezzo con Vasco Rossi. Sono cose molto diverse, ma in qualche modo volevo che la mia voce, la produzione, i live, sembrassero una cosa integrata. In questo senso l’album è un successo di tutto ciò.

Mi chiedevo se tutte le influenze ascoltabili, dal rock al blues, dal pop al funk, fossero il compimento dello stile di Irene Grandi. Perché questo è quello che traspare dall’ascolto di “Grandissimo”.

Era proprio questo l’obiettivo! Creare un racconto nel quale integrare tutte le mie varie parti. Anche perché io mi sento una persona a tutto tondo. Non è che perché funziona solo la parte grintosa allora avrei dovuto tirar fuori solo quella parte lì, come in “Bruci la città”. Non sarebbe stato autentico: da adulta mi sarei sentita un po’ a metà. Invece con questo album, in qualche modo, integro le diverse personalità anche per far sentire la crescita. Una storia non solo di successi, ma un vero e proprio percorso.

Un album, insomma, che fotografa la carriera di Irene Grandi. Ora ti faccio una domanda che odierei se fosse indirizzata a me, ma che mi piace fare. Per quanto le tracce siano come figli, ce n’è una alla quale sei più legata?

Ultimamente questa domanda me la fanno spesso, non so come mai. Forse perché ci sono tante canzoni nell’album. Sono molto legata a “Prima di partire per un lungo viaggio”, perché si riallaccia al tema del percorso, personale ma soprattutto artistico. È una canzone che racchiude queste varie anime. C’è un’anima introspettiva impiantata su una canzone rock, con la penna prestigiosa di Vasco Rossi. Un pezzo che ha una profondità, ma nonostante questo non è uno spiegone, non è una canzone pesante. Rimane sognante, ma con profondità, con lo slogan «Non è facile però è tutto qui» che tutti possono cantare.

In cosa ti senti cambiata personalmente, quindi non nella musica, rispetto alle origini?

Un cambiamento che vedo, proprio parlando di me, è la voce. Se vai a sentire le interpretazioni dei primi anni sono abbastanza diverse. Sia come tonalità che come timbro. Sia per come metto le frasi dentro una canzone. Bisogna cantare sul e con il tempo. Sicuramente l’esperienza dei live mi ha aiutata molto a “spostarmi” nel tempo quando fosse necessario. Di certo c’entrano anche le corde vocali. Non conosco la ragione specifica, ma crescendo il timbro si è come arrotondato e abbassato. Ho proprio la voce che suona leggermente diversa, ma ha il suo fascino. Non dico che non ero brava all’inizio, cantavo giusto diversamente.

Sei maturata. Magari adesso è proprio la tua personalità a rispecchiarsi meglio nella tua voce.

Sì, forse adesso sì. Prima magari c’era rabbia, c’era più l’intenzione di gridare che ora non c’è più. È faticoso essere sempre arrabbiati o stare contro qualcuno. Da un lato sicuramente la ribellione è più che altro una caratteristica giovanile,ma allo stesso tempo ero proprio io più incaz***a. Adesso mi sento una persona che ha imparato la pazienza, la tolleranza, il cercare la relazione amichevole e andare d’accordo con il mondo, nonostante sia difficile, è una chiave per stare meglio. Sono anche io diventata più “rotonda” (ride, ndr), un po’ più dolce.

E se potessi, in un mondo perfetto, dire qualcosa alla Irene Grandi di 25 anni fa, le daresti qualche consiglio o qualche schiaffo?

Sicuramente un “brava” glielo direi. Mi sono sacrificata molto, le ho dato la mia parte migliore. L’entusiasmo, l’energie, il tempo che ho passato nella musica e a farla, produrla, tournée. Me lo merito un “brava“. Forse certe volte ho delegato troppo alcune cose, non ho avuto molta strategia nella mia vita. Andavo molto di petto, di cuore, di simpatia. Capire meglio come girava il mondo mi sarebbe stato utile. Non sono cambiata tantissimo, sono solo un pochetto migliorata.

Un po’ meno impulsiva.

Sì, forse ero un po’ impulsiva. Ma più che altro mi occupavo del mio, e facevo fatica a occuparmi di cose che fanno certamente parte del nostro lavoro, ma che non hanno molto a che fare con la musica.

Ora viene la parte più divertente. Di tutte le tue canzoni ce n’è una che avresti preferito non aver mai scritto?

Ce n’è una che non mi è piaciuta sin dall’inizio. Però in quel momento avevamo bisogno di un “singolone” e ci sono delle storie che ti portano a uscire allo scoperto, perché magari ci sono tante altre ragioni per cui è giusto che vengano raccontate. Uscivo con un “Best Of” e mancava un singolo d’apertura, che è stato “Per fare l’amore”. Quel pezzo lì, nonostante alla fine abbia dei momenti ganzi e qualche intuizione, non è una canzone che mi fa impazzire. Neanche la produzione è venuta come avrei voluto. Avrei preferito un pezzo più rock, invece è uscita più elettronica – in un momento in cui l’elettronica centrava poco e niente – ed è una canzone che non faccio molto spesso. Anche se è stato un singolo, non lo ritengo il mio fiore all’occhiello.

Penso tu sia stata una tra le prime a fare, in Italia, un tipologia di video come per quello di “Bruci la città”. Forse giusto i Red Hot Chili Peppers avevano fatto una cosa del genere con “Californication”. Come ti venne in mente l’idea di questa produzione?

Sono incontri della vita. Incontrai un ragazzo, qui a Firenze, che lavorava nell’ambito di Second Life. Lui era proprio un ideatore di alcune parti del gioco. A quei tempi internet, tra l’altro, era ancora all’inizio. La cosa bella e divertente di questo video è che i personaggi erano veramente delle persone, come se avessimo fatto un cast, che partecipavano al video mettendo però i propri personaggi come se fossero delle comparse. Pensa, si fecero anche delle audizioni. Dopo il grande successo del video si fece addirittura un concerto in uno studio dove noi suonavamo per davvero, e gli omini di Second Life si muovevano in contemporanea col nostro spettacolo. E il pubblico che venne a vederci era proprio quello che giocava a Second Life. Un mondo virtuale, ma anche di partecipazione.

È stato un piacere parlare con te, Irene Grandi. Ti lascio, come a tutti gli artisti, la possibilità di chiudere l’intervista come meglio credi. Adesso puoi dire ciò che vuoi.

Mi piacerebbe ringraziare tutti. Noto che questo album, nonostante non sia un album di “moda” perché ho lavorato più sull’autenticità – e infatti è come se mi fossi fatta un regalo al di là delle case discografiche etc. – viene recepito con affetto dalle persone. Come se anche per chi mi segue sia stato un regalo, proprio perché magari mi ha visto in concerto e c’è una parte dedicata al concerto. Mi hanno vista con le mie passioni e le mie collaborazioni importanti. Si aspettavano qualcosa di nuovo, anche perché non faccio uscire un disco all’anno come prima, e quindi mi faccio attendere anche per curare progetti paralleli. Ho potuto dare dei pezzi nuovi e le persone mi hanno accolto con amore, devo dire, e tanto affetto. Magari non sono miliardi i miei fan, ma quelli che ho sono proprio belli, e quindi li ringrazio. Ciao ciao!