Marguerite (Melanie Thierry) vaga per le strade deserte di una Parigi ancora occupata. La sua voce, che riproduce il fraseggio letterario come Emmanuelle Riva in “Hiroshima, mon amour”, si sovrappone alla camminata. Quando dice «Il suono della strada sembrava svanire», la protagonista è circondata dal fuori fuoco. Mentre avanza, la donna si interroga dubbiosa su Robert, il marito mandato in un campo di concentramento. È vivo? Tornerà un giorno? Più che la versione illustrata della storia autobiografica di Marguerite Duras – già adattata in una pièce con protagonista Mariangela Melato – “La douleur” di Emmanuel Finkiel è anch’esso un lavoro di creazione. Un’opera che attinge alla sorgente delle parole ma poi, versandole sullo schermo, ne modifica la scrittura, intreccia le linee di dialogo, aggiunge e rielabora i personaggi. Il regista ha inventato un proprio linguaggio, prende in considerazione un’altra modalità del cinema, quella di un’arte attraversata dai fantasmi.
Emmanuel Finkiel utilizza varie tecniche per adattare il romanzo di Duras, ma tutte seguono la medesima strategia: frammentare il reale, rivelare la parte della percezione soggettiva. Un’opera che si avvia nel suono di una voce nutrita dalla letteratura. Quella di un’eccezionale interprete, oscillata tra dentro e fuori, tra presenza e assenza. Galleggiando tra due piani, due posti, due battiti, la parola scritta è letteralmente disincarnata, strappata dal suo corpo eloquente e riscritta filmicamente sulle labbra che la pronunciano. Cosa pronunciano? La poesia di un garofano, rivelazione della natura profondamente carnale del linguaggio. «Sono nel presente», dice Marguerite. Ma come essere in un tempo fugace, nel tempo dell’interminabile attesa del ritorno dell’uomo? Come la voce, il corpo si raddoppia. Molte volte, l’attrice appare sullo schermo in una doppia immagine. Quale delle due è fantasia? Quale delle due virtualizza l’altra? Entrambe. Il presente raddoppiato si intensifica e acuisce la paura dell’attesa.
“La douleur” è un’esperienza coinvolgente per lo spettatore, sempre invitato a interpretare gli avvenimenti attraverso gli occhi e le orecchie della protagonista.
Il film non è storia penelopiana di una moglie affranta che attende il ritorno dell’amato marito. Nel momento in cui Robert venne arrestato, Marguerite già non ne era più innamorata. Il dolore, scritto e provato tra il giugno del ’44 e l’aprile del ’45, più che generato dall’attesa è provocato dall’epifania del sentimento esaurito. Rivelazione che ora la porta a sperare che non ci sia mai un ritorno. Per ripristinare la complessità del personaggio, Emanuel Finkiel decide di unire la storia principale del romanzo con una in appendice intitolata “Il signor X detto qui Pierre Rabier”. Lo sviluppo del rapporto tra la protagonista e un poliziotto francese, interpretato finemente da Benoît Magimel, sottolinea l’ambiguità della scrittrice che non può fare a meno di continuare a vivere come dà a vedere a tutti. Fingendo che il dolore la stia spingendo verso la morte e che sopravviva solo nell’attesa del ricongiungimento.
In questo modo, il regista scava nei sentimenti di una donna attorno alla quale gravitano molti uomini. Tranne, non a caso, quello che lei dice – o crede – di amare. La prima parte del film, incentrata sulla collaborazione tra la protagonista e Robier, intriga e preserva abilmente l’ambivalenza dei personaggi. “La douleur” è un’esperienza coinvolgente per lo spettatore, sempre invitato a interpretare gli avvenimenti attraverso gli occhi e le orecchie della protagonista. Se ciò che ci è consentito vedere è limitato dall’uso di focali lunghe che disturbano gran parte dell’immagine, ciò che sentiamo è altrettanto indefinito, una confusione di rumori e voci che in ogni momento ci illudono del ritorno di Robert. Come il romanzo, la narrazione del film è interiore e mai onnisciente. Spettatore e personaggio sono dotati dello stesso set cognitivo. Siamo costretti a muoverci con e nella protagonista, e a capire gli sviluppi narrativi ed emotivi in contemporanea.
Quello che sappiamo, ciò che ci viene nascosto e ciò che rifiutiamo di vedere diventa ancora più importante nella seconda parte di “La douleur”.
Quello che sappiamo, ciò che ci viene nascosto e ciò che rifiutiamo di vedere diventa ancora più importante nella seconda parte di “La douleur”. Superato il giro di boa, emergono coloro che la società del tempo non voleva vedere, quelli che il cinema di oggi non sempre sa come mostrare: i deportati tornati dai campi in una radiosa giornata di primavera. Il film si inserisce così nella questione che attraversa il cinema e la critica francese: il cinema può e deve inscenare i campi nazisti e i loro effetti sui corpi dei sopravvissuti? Emmanuel Finkiel scegli di mostrare alcuni sopravvissuti che hanno perso la loro esistenza ma mantengono un volto umano. Eppure, il corpo di Robert, descritto nel romanzo come una “forma che galleggiava tra la vita e la morte”, rifiuta di condensarsi in un’immagine. Un modo per il regista di riconoscere l’impotenza della finzione davanti all’orrore della realtà.
“La douleur” è un esempio di adattamento che si distanzia da quella «certa tendenza all’equivalenza del cinema francese» sottolineata da Truffaut. Dall’inizio alla fine, Emmanuel Finkiel tiene fede alla rotta impostata, sovrapposta alla sua eroina, avvoltale al collo, ai capelli e agli occhi per esplorare i meandri della sua sofferenza. La coerenza registica plasma un film tautologico e assume un’idea e una forma discorsiva in cui si può accedere all’interiorità solo avvicinandoci il più possibile al soggetto mostrato, fino a sovrapporci a lui, o quasi. Le inquadrature ravvicinate sul volto di Marguerite restituiscono le sue dicotomie, comprendendola o dissociandosi da ciò che prova, fino a alle scene in cui Melanie Thierry è letteralmente divisa sullo schermo. La voce dell’autrice e del suo alter ego, off ma presente, così come la musica dissonante che pervade il film, riesce a infondere un inquietante familiarità in questa donna ossessionata dall’assenza.