Portare in scena una trilogia diretta e ideata in prima persona ad un festival come il Roma Europa vale di per sé il lungo applauso effettivamente tributato. Tanto più se le quattro ore in scena sono trascorse via compatte e piacevoli, fra risate e momenti di riflessione partecipata. Partiamo dunque dalla consapevolezza che Liv Ferracchiati dà l’impressione di sapere bene cosa dire. E lo dice con un linguaggio diretto, semplice, quotidiano. Fa ricorso ad un registro spesso volgare, giocando ad elevare il pornografico, o meglio lo slang di certo cinema mainstream, al valore di grido rivoluzionario. Torneremo a questo grido. Con ordine. “Peter Pan guarda sotto le gonne”. Primo frammento della trilogia. In sé compiuto come appunto un frammento, paradossalmente come rimando ad altro. Compiuto nell’incompiutezza è un punto che accomuna i tre pezzi della trilogia, autonomi e non al contempo. Perfetta metafora del corpo perennemente under construction del transgender.
In “Peter Pan guarda sotto le gonne” c’è il racconto dell’adolescenza, letta come trans-izione. Interrogazione primaria rivolta al corpo nel suo apparire come oggetto sessuale. Corpo sbirciato con la curiosità di chi, avendo appena attraversato l’infanzia, ne preserva il senso di sacralità. Peter è una bambina di 11 anni e mezzo alla scoperta della sua ombra, del suo doppio disconosciuto e avversato dalle voci genitoriali. Che appunto promano fuori campo, come fantasmi. Sono echi patriarcali che vorrebbero vestire Peter ad immagine di un femminino standard, simboleggiato da un vestitino rosa in cui Peter si incastra a fatica. Peter che, magnificamente interpretato da Alice Raffaelli, conduce la sua ricerca attraverso la conoscenza di Wendy, una plausibilissima Linda Caridi, amica di giochi e alterchi che offrirà il suo sesso alla contemplazione di Peter. Come un’icona nascosta sotto la gonna.
Liv Ferracchiati dà l’impressione di sapere bene cosa dire. E lo dice con un linguaggio diretto, semplice, quotidiano.
Segue “Stabat Mater”. Titolo altisonante, che si denuncia nello schermo sospeso sulla quinta proiettante il viso egemone e monumentale della madre, Laura Marinoni. Viso sublime, tracciato di una malinconia che rimanda alle icone della Vergine, appunto. La malinconia di chi guarda il figlio farsi lontano. Tragedia della distanza, opposta alla protervia di un cordone ombelicale incorruttibile, steso lungo le fibre di un telefono che squilla più volte al giorno. Protagonista è di nuovo Alice Raffaelli, Andrea nel dramma, proiezione coerente di Peter che, cresciuto, prosegue la transizione verso il corpo maschile. Gioca in suo favore una grande plasticità androgina, corroborata da un lavoro sul gesto evidente e lodevole. Di nuovo ed ottimamente affiancata da Linda Caridi, fidanzata eterosessuale e dunque olio buono per ungere il motore dell’attraversamento di genere, e Chiara Leoncini, psicologa che si offre come specchio della psiche autocompiaciuta di Andrea.
Rispetto a “Peter Pan guarda sotto le gonne”, si percepisce un lavoro drammaturgico più corposo, ma anche il ricorso a cliché psicologici un po’ ritriti. Andrea, nome che nell’etimo significa uomo ma che per la finale rimanda al femminile, è prigioniero del suo narcisismo: usa le relazioni per titillare la propria brama di potere. È un erotomane, un forzato della seduzione che cerca ossessivamente di ricevere amore per replicare il fantasma di quello materno, inimitabile. Andrea finirà infatti per usare il transfert e sedurre la psicologa, che corrisponderà compiaciuta. Certo, il tema edipico e la dinamica del transfert non sono chiavi di lettura originalissime.
“Sono la tettonica a zolle della ricostruzione identitaria” dice Liv Ferracchiati nel ruolo ironico dell’eschimese.
Infine arriva “Un Eschimese in Amazzonia”, con in scena Liv Ferracchiati protagonista contrapposto ad un coro a quattro ove torna l’instancabile Alice Raffaelli (chapeau!). Struttura scenica che dunque pesca nella classicità e ne fa un uso piuttosto lineare. Il coro incarna la martellante interrogazione della società che vorrebbe appiattire l’unicità dell’eschimese con quesiti da talk show. Causticamente politico, “Un Eschimese in Amazzonia” presenta un linguaggio più sperimentale. Si gioca a sciogliere l’impianto teatrale in un live-show altamente reattivo rispetto alla reazione del pubblico, abbondantemente apostrofato con esiti comici e grotteschi. Liv Ferracchiati qui riprende in prima persona quel grido preannunciato. Grido del corpo che confonde la mente, perché è il corpo fluttuante nella vicenda gender. “Sono la tettonica a zolle della ricostruzione identitaria” dice Liv Ferracchiati nel ruolo ironico dell’eschimese.
Se pure più volte il regista e ideatore ha sottolineato come la ricerca non sia esclusivamente autobiografica, pure si percepisce la scottante urgenza del vissuto personale. Un vissuto che lambisce figure della fluttuazione tragicamente contemporanee, destando dunque un interesse generale ma anche pericolosamente generico. Ma questo attiene pubblico e critica, più che quanto visto in scena. Dove certo brilla il lavoro degli attori e convince la sperimentazione linguistica che frulla riferimenti letterari, musica pop e impianti tradizionali del teatro. Meno convincente è paradossalmente proprio la narrazione sul tema del gender. Troppi cliché psicanalitici, che appiattiscono la ricerca potenzialmente trascendentale e ontologica consustanziale alla cornice. I personaggi vengono incapsulati in una compiutezza psichica che non riproduce il positivo non-finito che invece si afferma a livello formale. Per usare una metafora, la trilogia è un’ottima prosa che non si eleva quasi mai alla poesia. Ma questa, forse, è una scelta.