Benvenuto Maldestro, è un piacere poterti ospitare su Music.it. È iniziato da poco il tour “Mia Madre Odia Tutti gli Uomini”. Come sta andando?
Sì, per ora ho suonato in sei date. Devo dire è andata benissimo, molto emozionante e molto bello. Speriamo continui così.
Tra l’altro è iniziato nella tua zona. Hai giocato in casa!
Sì è vero. Ma è sempre complicato giocare in casa. Perché le emozioni in ballo sono sempre diverse e sempre più particolari. Ma per fortuna esco dal teatro sempre felice e pieno di abbracci.
Ti va di raccontarci come è nato “Mia Madre Odia tutti gli Uomini” e cosa lo differenzia dagli album precedenti?
È frutto del percorso di due anni. Un percorso non solo artistico, ma soprattutto umano che mi ha permesso di togliermi l’armatura e di raccontare il mio modo di essere rispetto agli altri dischi. Se prima raccontavo le storie in terza persona, nascondendo la mia dietro, in questo ho scelto di mettermi a nudo. In questo modo sono riuscito ad apprezzare i sorrisi ma anche i dolori di una parte della mia vita, racchiudendoli in dieci pezzi che sento davvero vicini. Ma è stato anche un percorso fatto di incontri, soprattutto quello con Taketo Gohara, il produttore artistico, che ha capito perfettamente quello che avevo dentro ed è stato magistrale nel gestire le mie canzoni in quel modo.
Infatti tu hai anche detto: «sapevo che prima o poi avrei fermato da qualche parte un pezzo della mia vita». Qual è questo pezzo di vita e perché hai scelto proprio questo?
Sai, a un certo punto cresci, arrivano impulsi nuovi e da questi riesci a cogliere le piccole sfumature che ti permettono di essere più leggero nel raccontare anche i dolori, riuscendo così a essere felice. Non per forza devono essere successi grandi eventi: è un momento umano che va colto prima che sfumi via.
Rispetto agli altri album è stato proprio un passaggio da una dimensione più solitaria di Maldestro a una intima ma condivisibile. È stata un’esigenza da parte tua o pensi che sia stato il periodo storico che stiamo vivendo ad essere propizio per una lettura universale?
Credo che parta sempre tutto da un’esigenza personale. È la scrittura a voler liberare delle cose e non portarle dentro. Attraverso la scrittura, cioè, trovo dei canali che mi permettono di alleggerirmi. È davvero un’esigenza fisica e non lo faccio solo per fare il disco o uno spettacolo teatrale.
Quasi un percorso terapeutico.
Esatto. Per analizzarmi soprattutto e poi cercare di elaborare tutto quello che succede intorno.
Lo hai appena nominato. La tua prima carriera è stata appunto quella teatrale. Hai scritto più di quindici opere. È una strada che stai continuando o comunque hai trovato un modo per connetterla alla musica?
Lo dico spesso. L’unica cosa che la musica mi ha tolto è stato il teatro. Sono cinque anni che sono lontano da quel tipo di mondo e mi manca tantissimo. La scena è la mia vera casa e cerco sempre di inserirla in qualche modo durante i live. Qui ogni canzone è accompagnata da un monologo che racconta qualcosa della mia vita. In questo modo cerco di fare entrambe le cose. Ma non escludo assolutamente di tornare in teatro solo per la drammaturgia.
Facciamo un passo indietro. Hai partecipato al Festival di Sanremo nella categoria Nuove Proposte, vincendo il Premio Mia Martini. È un’esperienza che rifaresti?
In questo mio momento personale non lo so davvero. Sto lavorando a tantissimi nuovi progetti che mi danno molti stimoli, togliendomi però molto tempo. Però Sanremo è stata un’esperienza emozionante e particolare. L’ho vissuta come un gioco, con il giusto distacco per non entrare in un certo vortice. Mi ha permesso di farmi conoscere da più persone. Ma Sanremo è una settimana: dopo quella settimana bisogna continuare a costruire. Se non hai delle idee chiare per il futuro, un progetto solido in testa, una dedizione al lavoro duro, allora Sanremo serve a ben poco.
Questo è quello che dovrebbe distinguerlo dai talent show.
Esattamente. Anche se le ultime edizioni si sono avvicinate molto ai linguaggi dei talent, cercando anche un pubblico più giovane.
È stata anche sdoganata l’immagine di Sanremo come veicolo di sola musica leggera. Ci sono molte band alternative e cantautori impegnati che sono stati o saranno a Sanremo: Afterhours, Marlene Kuntz, Marta sui Tubi. Quest’anno abbiamo visto lo stesso Manuel Agnelli, Motta e gli Zen Circus che hanno duettato con Brunori Sas. Cosa ne pensi?
I tempi cambiano, ed è giusto che anche Sanremo si adatti alle altre realtà numerose che esistono nella discografia italiana. La scelta di portare sul palco band più o meno indipendenti è una scommessa che va portata avanti in quanto, qualunque sia l’esito del concorso vero e proprio, dà valore sia ai giovani ma anche e soprattutto a quelle band che suonano da venti anni. È un riconoscimento che va dato a chi si è fatto le ossa per tanto tempo e conosce i palchi molto bene.
Ora voglio farti una domanda di rito, ma che la dice sempre lunga su un artista. Quali sono oggi i tuoi artisti preferiti e che vale davvero la pena andarli a vedere in concerto?
Li hai citati prima. Uno di questi è senza dubbio Brunori Sas. Credo che sia uno dei più talentuosi della nostra musica contemporanea e dei moderni cantautori. Anche lui ha fatto un percorso lungo per arrivare ad affermarsi. Per fortuna è arrivato a questi livelli e porta in alto la bandiera della musica d’autore italiana.
Avete qualcosa in comune in effetti. L’ironia innanzitutto, e il gusto teatrale durante i concerti.
Sì, quelli sono gli insegnamenti della scuola di Giorgio Gaber, che è stata fondamentale almeno per me. Ho visto molti suoi concerti e lo stampo credo sia lo stesso. Giorgio Gaber è il pioniere di questa forma d’arte del teatro canzone. Ci accomunano credo proprio questi studi e questi ascolti.
E chi sono allora gli autori teatrali che contribuiscono alla tua musica e in generale alla tua scrittura.
Ci sono i maestri classici, come Eduardo De Filippo, ma anche i britannici come Ray Cooney, passando anche per il primissimo Vincenzo Salemme. Ora noi lo conosciamo per i film a cui ha partecipato e che hanno uno stampo comico completamente diverso e sicuramente commerciale. Ma quindici anni fa era uno dei commediografi migliori che abbiamo mai avuto. La scuola napoletana in generale è tra le migliori. Da napoletano ti dico che non bisogna restare intrappolati nella tradizione e allo stesso tempo portarla avanti. È un equilibrio delicato che però è proprio quello che ti rende libero dai cliché. Pensate solo a quello che ha fatto Massimo Troisi!
Ti ringrazio Maldestro per essere stati con noi. Prima di lasciarti andare però ti lascio l’ultima battuta per salutare i lettori di Music.it. In bocca al lupo e a presto!
Saluto tutti, è stato un piacere. Spero di vedervi sotto al palco!