Allo stato dei fatti quello de “Il racconto dei racconti” (2015) sembra essere stato solo un incidente di percorso, un film spurio e illegittimo nato dal bisogno di tentare spazi più ampi, definiti da grandi budget e cast hollywoodiani, e non veramente l’ennesima tappa di un discorso autoriale coerentissimo. Per questo motivo “Dogman” è da incensare con più convinzione di quella che già merita, poiché segna l’atto di rinascita di un regista straordinario che ha ritrovato se stesso e il suo cinema.
Quelle che si respirano nella nuova opera di Matteo Garrone sono le atmosfere plumbee e perennemente grigie del suo film più autentico, “L’imbalsamatore” (2002), che definiscono uno spazio nichilista, un avamposto inurbato rigettato dalla civiltà verso il mare, che accatasta caseggiati popolari senza intonaco, negozi mortificati dalle serrande abbassate e, al centro, un parco giochi fantasmatico a riproporci l’onnipresente garroniano elemento favolistico – coordinate spaziali che nella loro esiguità ricordano le conseguenze di un’implosione, macerie di carne e cemento rigettate dal Giusto e da Dio.
Quelle che si respirano nella nuova opera di Matteo Garrone sono le atmosfere plumbee e perennemente grigie del suo stile.
In questo teatro spettrale incastrato tra il fango e il cielo, Matteo Garrone inscena la storia di una brutalizzazione. Liberamente ispirata al fatto di cronaca del Canaro della Magliana, il regista ha attinto dai giornali e dalle leggende quanto bastava per non scadere nella ricostruzione morbosa di una vicenda reale alimentata negli anni dalle fantasie più spregiudicate. Marcello (Marcello Fonte) è un uomo buono che vive per la figlia e i suoi cani; piccolo e rachitico trascorre le sue giornate tra toelette e partite di calcetto con gli amici del quartiere. Tra questi c’è Simoncino (Edoardo Pesce), un gigante stupido e cocainomane, a cui è legato da un rapporto inscindibile e di inspiegata sottomissione, al punto di farsi un anno di galera al suo posto. L’ingiustizia e l’ingratitudine finiscono per rompere qualcosa in Marcello, costringendolo al tragico riscatto.
Tutto “Dogman” lavora alla costruzione di un innesco, del prima che giustificherà il dopo, plasmando la docilità di un uomo o di quello che ne resta nonostante tutto. Sin dalla scena iniziale in cui con pazienza francescana il protagonista riesce a lavare un cagnone ringhioso, si capisce l’indole pacifica di Marcello, ribadita e definita in piccole azioni successive, dal salvataggio di un cane congelato ai momenti di affetto paterno. A causa della sua propensione altruista, Marcello si dimostra al contempo incapace di stare al di qua del lecito, di salvaguardare se stesso e affrancarsi da Simoncino. Respinto dagli amici, l’uomo cerca di correre ai ripari con un atto di “pubblica utilità”.
Tutto “Dogman” lavora alla costruzione di un innesco, plasmando la docilità di un uomo o di quello che ne resta nonostante tutto.
Proprio nella costruzione detonante del dramma sta il fascino di “Dogman”. Matteo Garrone lavora in sottrazione privilegiando le azioni ai dialoghi, esaltando i dettagli e rimuovendo le banali sottolineature. La macchina a spalla circonda il protagonista come il coro di una tragedia greca, mentre l’uomo smette di essere la carcassa di cui tutti si cibano. Le orbite nere e le spalle gracili di Marcello Fonte – meritatamente premiato a Cannes – si rafforzano sotto il peso delle umiliazioni, e persino la voce gracchiante sembra intonarsi sotto i colpi delle derisioni.
Guardando l’orizzonte, stretto a sua figlia dopo un’immersione subacquea, Marcello decide di rialzarsi. Quelli sottomarini sono gli unici momenti luminosi di una pellicola che si annerisce mentre scorre. Come la fiamma che percorre un cerino, Marcello sceglie di sganciare la mano prima di bruciarsi del tutto. Il corpo portato a spalla diventa un’offerta di pace in cambio di un perdono. Ma il perdono è un’allucinazione all’alba, il miraggio di una speranza, il credo resiliente di un anima buona. L’uomo brutalizzato si ferma, scarica il peso della colpa dalle spalle e rimane lì, fermo e ansimante al centro del nulla.