MAX PEZZALI e LODO GUENZI, DPCM SQUAD: artisti uniti a sostegno dei professionisti dello spettacolo
Max Pezzali e Lodo Guenzi presentano "Una canzone come gli 883", il primo brano del DPCM SQUAD a sostegno del mondo della musica
Max Pezzali e Lodo Guenzi presentano "Una canzone come gli 883", il primo brano del DPCM SQUAD a sostegno del mondo della musica

MAX PEZZALI e LODO GUENZI, DPCM SQUAD: artisti uniti a sostegno dei professionisti dello spettacolo

Max Pezzali e Lo Stato Sociale presentano DPCM SQUAD con la partecipazione di: Cimini, Eugenio In Via di Gioia, Fast Animals and Slow Kids, J-Ax, Marco Giallini, Jake La Furia, Emis Killa, La Pina, Pierluigi Pardo, Pinguini Tattici Nucleari e Nicola Savino. La DPCM SQUAD, debutterà ufficialmente il 5 giugno con il brano “Una canzone come gli 883”, prodotta da Boss Doms.

DPCM SQUAD, una superband a sostegno dei professionisti dello spettacolo

La DPCM SQUAD è a tutti gli effetti una superband, nata durante i mesi di quarantena con lo scopo di aiutare tutti i professionisti del mondo dello spettacolo. In questi mesi di emergenza sanitaria, tra le categorie più colpite, troviamo proprio quella degli addetti ai lavori dello spettacolo, già fermi da mesi e che dovranno restare fermi per molto tempo ancora.

“Una canzone come gli 883” nasce nell’ottica del panorama musicale in cui hanno vissuto gli 883 e del quale sono diventati rapidamente uno dei simboli. Lo Stato Sociale e Max Pezzali hanno raccolto in un unico brano tutto l’immaginario di quegli anni d’oro. Un condensato di tutti i grandi cavalli di battaglia portati al successo proprio dagli 883.

Il video di “Una canzone come gli 883” è stato realizzato da Tito Faraci e Roberto Recchioni, due eccellenze del fumetto italiano e non solo, e dal regista Giorgio Testi. La copertina è stata realizzata da Paolo “Ottokin” Campana, così come il logo di DPCM SQUAD.

“Una canzone come gli 883”, il brano nato quasi per gioco

La realizzazione di “Una canzone come gli 883” ha preso vita quasi per gioco dall’incontro di Max Pezzali e Lodo Guenzi. Ai due si è poi unita la schiera di artisti che formano il “collettivo” DPCM SQUAD. Il brano è stato presentato in anteprima su EPCC LIVE su Sky Uno con la performance di Max Pezzali e Lodo Guenzi assieme ad Alessandro Cattelan.

“Una canzone come gli 883” è stata registrata durante il periodo di lockdown con i mezzi a disposizione di ogni artista, dal semplice cellulare fino al Forum Music VIllage di Roma. Tutti i proventi del brano saranno devoluti all’iniziativa di Spotify, COVID–19 Sosteniamo la musica. L’iniziativa va a sostegno di artisti, musicisti, autori, tecnici dello spettacolo che sono stati la categoria maggiormente colpita dagli effetti della pandemia di Coronavirus. In Italia il fondo arriva grazie a Music Innovation Hub ed è promosso da FIMI.

Per ogni euro donato a Music Innovation Hub, Spotify ne verserà un altro, andando così a raddoppiare i fondi a disposizione del mercato italiano della musica.

Le dichiarazioni di Max Pezzali

«Da tempo avrei voluto fare una canzone con Lo Stato Sociale perché semplicemente li adoro; appena sono riuscito a comunicarglielo, Lodo in sole 24 ore aveva scritto questo pezzo. Mi piaceva da morire, parlava del mondo ai tempi degli 883; l’ho cantato, ma quelle parole pronunciate da me suonavano forse troppo autoreferenziali e celebrative; così ho pensato di metterla momentaneamente da parte in attesa dell’occasione giusta.

Quando è scoppiata l’emergenza e il mondo si è fermato è bastato un giro di telefonate per capire cosa fare: perché non riunire un gruppo di amici veri e fidati, e cantarla tutti insieme? E perché non provare ad aiutare tutti i professionisti del mondo della musica che ci hanno sempre dato la possibilità di andare in giro a far sentire le nostre canzoni, che hanno montato i nostri palchi, che hanno dato voce ai nostri impianti, che hanno illuminato le notti di tutte le città in cui siamo stati, e che hanno portato al pubblico infinite serate di festa e di allegria?
E così abbiamo fatto»

Le dichiarazioni di Lodo Guenzi

 «Sono un ragazzo cresciuto in centro, in una città di borghesia semicolta di sinistra. Sfiga quanta ne vuoi, provincia zero.
Sono vissuto per 18 anni tra casa, scuola e campo da basket, senza mai uscire dal quartiere. Bici quante ne vuoi ma moto zero. 

Ho fatto la trafila di collettivi, centri sociali, concerti del 25 aprile e primo maggio, band liceali e occupazioni che in fondo ti immagini. Culo nel burro dell’Emilia di sinistra quanto ne vuoi, voglia di scappare zero. Quando è esploso il fenomeno 883 e ha travolto tutti gli adolescenti d’Italia, io facevo la prima elementare. In classe mia “Hanno ucciso l’uomo ragno” era diventata “Hanno ucciso la bidella”, con tutto il testo cambiato. Era diventata un po’ il nostro inno di ribellione. Le maestre scandalizzate provavano a censurarci, ma anche i più leccaculo di noi la cantavano forte. Una sorta di battesimo del rock’n’roll. 

Sono cresciuto nel cuore della città più piena di cantautori per metro quadro del mondo, odiando quello che per me rappresentavano gli 883: il disimpegno, il divertimento stupido, il mito del successo anni ‘90. Tutto mi pareva così lontano dai miei Guccini e De Andrè, Jannacci e Rino Gaetano. 
Poi sono andato in tour e ho capito la provincia descritta dagli 883. 

Sono uscito dai miei quattro metri magici. Ho suonato alla sagra della zuppa di Massarella di Firenze. A quella dell’anguria di Fara Vicentino. Aquella del galletto di Gazzada Schianno, a Viterbo e a quella della birra di Fabrica di Roma. Ho visto tutta la provincia di questo Paese, spesso in festival tenuti in piedi solo con la voglia, la colla e lo sputo, da ragazzi della mia età che si facevano il culo per regalare al loro paesello una parvenza di vita. Perché “con un deca non si può andar via” e allora provi a far succedere qualcosa che ti faccia sentire un po’ più “al centro del mondo.

Ecco che grazie al primo tour de Lo Stato Sociale, partendo dal mio quartiere nel centro di Bologna per arrivare alle sagre più improbabili, ho scoperto che due mondi così lontani non potevano che guardarsi e capirsi. In quei festival, oltre alla colla e allo sputo, c’era il lavoro vero. Duro e pieno d’amore di quel mare di tecnici che in questo Paese rendono possibile scordarsi per una sera di essere solo un ragazzo di città o uno di provincia e sentire di far parte di un popolo che grida ai concerti e sentire che in fondo nessuno è solo.
Questo lavoro è pagato ma non è assicurato, e questi mesi senza concerti e senza paracaduti stanno mettendo in ginocchio la categoria.
Fai una cosa buona, valà»