Il secondo lungometraggio di Alonso Ruizpalacios, “Museo – Folle rapina a Città del Messico”, vincitore dell’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura alla scorsa Berlinale, è ispirato a uno dei più celebri furti d’arte della storia messicana. La vigilia di Natale del 1985 furono rubati dal Museo Nazionale di Antropologia della capitale 140 reperti maya e mesoamericani di valore inestimabile. La rapina, inizialmente attribuita a una sofisticata organizzazione criminale internazionale, si rivelò opera di due sfaticati studenti locali, quasi trentenni e ancora lontani dal finire gli studi di veterinaria. Con una regia mescolante nostalgia e spettacolo, Alonso Ruizpalacios racconta ingegnosamente il prestigioso furto. E ne segue i due artefici anche nei tentativi di sbarazzarsi della refurtiva fino a ritrovarsi in un labirinto senza via d’uscita. La rapina più spettacolare nel Messico moderno serve alla regia per tessere una meditazione esplosiva e divertente sul fallimento, sull’amicizia e sull’identità culturale.
Dopotutto, cos’è un museo? Che sia per toglierlo, per cambiarlo o per porlo, è sicuramente l’istituzione del dubbio. Pone domande e trova risposte circa il senso degli oggetti esposti. Marcel Duchamp, mettendo un orinale all’interno di un museo e presentandolo come una fontana, avanza una domanda che non contempla solo il significato dell’oggetto, ma anche del luogo che lo accoglie. Ciò che viene messo in discussione è, in effetti, le modalità con cui le istituzioni cambino il significato delle cose. Con equilibrio e riflessività, Alonso Ruizpalacios mette a fuoco proprio questo, interrogando senza intellettualismo le trasformazioni del significato operato dai musei e dalle persone che li visitano. Dopo il sorprendente “Güeros” (2014), il regista ripropone la cronaca di un viaggio verso il nulla in cui dominano questioni come il passaggio dalla gioventù all’età adulta, la famiglia e le reali motivazioni di un gesto.
“Museo – Folle rapina a Città del Messico” solleva domande sull’appropriazione dei reperti culturali e sull’investimento di risorse per preservarli.
Quella a cui assistiamo è la storia di un fallimento programmato, di un’amicizia spezzata e di una redenzione involontaria. Al centro di questa c’è la strana coppia di protagonisti, Juan (Gael Garcìa Bernal) e Wilson (Leonardo Ortizgris), che, proprio come la società che li ha generati, vivono affascinati sia dal progresso che dal passato. Finiscono per restare immobili, incapaci di decidersi tra queste due spinte. Alonso Ruizpalacios organizza il film come un road-movie a cui ha sottratto parte della complessità metalinguistica del suo precedente lavoro. Ciò che conta ora è il viaggio esistenziale intrapreso per il bisogno di sentirsi vivi. La maggior parte della storia segue il tragitto dei due protagonisti nel tentativo di vendere gli oggetti rubati. Pur di nascondersi dalla polizia, i due guideranno per diverse miglia per incontrare dei potenziali acquirenti di quelli che non sono semplici oggetti di valore.
Il regista usa quegli oggetti come metafore di un’identità mutevole, del sentimento di rabbia verso la soppressione coloniale e dei valori a cui sono aggrappate le vecchie generazioni. Due scene restituiscono questa simbologia con efficacia. Nella prima dei bambini messicani predono la borsa con la refurtiva e cominciano a usarli come giocattoli sulla spiaggia, ignari della loro storia e della loro importanza. Nella seconda alcuni turisti visitano il museo dopo che è stato trafugato. Questi si meravigliano delle teche vuote dove un tempo erano collocati i manufatti e che ora vengono considerati rubati da trafficanti stranieri. “Museo – Folle rapina a Città del Messico” solleva anche domande sull’appropriazione dei reperti culturali e sull’investimento di risorse per preservare tesori che altre nazioni hanno trascurato. Se una compagnia americana finanzia una spedizione per ritrovare un galeone spagnolo con un carico d’oro sottratto agli Inca, a chi dovrebbe appartenere questo una volta recuperato?
Museo – Folle rapina a Città del Messico” affronta sfide intellettuali e problemi umani concreti attraverso una lente prettamente cinematografica.
La sceneggiatura, scritta dal regista e da Manuel Alcala, si fa interessante all’indomani del furto. La scena della rapina è certamente diretta in modo eccellente, richiamando il nichilismo dei noir francesi degli anni ‘50, come “Rififi” di Jules Dassin e “Bob il giocatore” di Jean-Pierre Melville. Come pure, in misura minore, “Giungla d’asfalto” di John Huston e “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick. Ma questo evento narrativo è posto all’inizio del film, lasciando al regista la libertà di approfondire lo sviluppo dei personaggi e di sperimentare numerose stilizzazioni. L’ispirazione di Juan per il furto sembra derivare da sentimenti nazionalistici sorti proprio durante una visita al museo con tutta la famiglia. Davanti a quei tesori il padre di Juan esprime una sorta di rancore post-colonialista. Il motivo del crimine può essere imputabile al desiderio del figlio di riscattarsi agli occhi del padre? È probabile.
Il furto però non risolve nulla. Ben presto i protagonisti non sanno che farsene degli oggetti rubati. Ma è il modo in cui il regista elucida queste pulsioni psicologiche attraverso mezzi puramente filmici a rendere “Museo – Folle rapina a Città del Messico” un oggetto di notevole prestigio. Mentre Juan e Wilson cercano in ogni modo di liberarsi della refurtiva, le fragili giustificazioni di riappropriazione culturale e altruismo familiare si disgregano, mentre l’inutilità del crimine diventa sempre più evidente. Juan sta cercando di restituire l’identità culturale al suo popolo rubando gli stessi oggetti che lo simboleggiano. Ma come puoi rubare qualcosa che è già oggetto di un furto? È un quesito affascinante, soprattutto per lo slancio umano che la regia attribuisce al furto. “Museo – Folle rapina a Città del Messico” affronta sfide intellettuali e problemi umani concreti attraverso una lente prettamente cinematografica. E ci riesce con tanto di lode.
“Museo – Folle rapina a Città del Messico” riproduce nella regia il luogo del titolo, offrendo arditi effetti visivi, musica meravigliosa e una trama avvincente.
La tecnica del regista, apparentemente ancorata allo stile della New Hollywood degli anni ’70, rivela gradualmente un ventaglio di influenze più ampio. I toni godardiani per la scena della rapina si mescolano alle sospensioni brechtiane di una rissa in un bar. La macchina da presa si concede un giro intorno alla scultura urbana “Torres de Satélite”, rivelando una noia tale da sembrare appena uscita da un film di Antonioni. “Museo – Folle rapina a Città del Messico” riproduce nella regia il luogo del titolo, offrendo arditi effetti visivi, musica meravigliosa e una trama che avvince in classicità e stupisce in innovazione. Sin dall’inizio ci imbattiamo nella panoramica complessa che lega alcuni bambini che suonano il flauto in una scuola, fontane d’acqua e delle altalene in un parco giochi. Gli angoli di ripresa scalano dalle panoramiche dall’alto ai primi piani, sperimentando persino uno sguardo dall’interno di un obiettivo fotografico.
Al fascino visivo si aggiunge il montaggio di Yibran Asuad che utilizza in modo innovativo suono, silenzio e tagli rapidi per immergere il pubblico nei molteplici toni della storia. Alla precisione del montaggio e all’intelligente dinamica messa in scena “Museo – Folle rapina a Città del Messico” affianca l’allineamento di generi senza soluzione di continuità: commedia criminale, buddy movie e melodramma familiare. Gael García Bernal eccelle in una parte che ne fa risaltare talento e doti drammatiche. Mentre Leonardo Ortizgris stupisce in un ruolo sfumato che oscilla tra commedia e tragedia. Fusioni a più livelli che raccontano del nostro rapporto travagliato con il passato e la storia. Ad un certo punto, John si sente offeso da un collezionista britannico che utilizza la parola preispanico. Anche se gli sta (s)vendendo i pezzi della sua storia, Juan lo riprende con rabbia: “Mesoamericano, si dice. O maya, signore. Questo è quello che sono!”.