NÈKTAR, il nuovo disco di JULINKO è un viaggio al termine dell'etere cosmico
Giulia Parin Zecchin - Juliko
Giulia Parin Zecchin - Juliko

NÈKTAR, il nuovo disco di JULINKO è un viaggio al termine dell’etere cosmico

Uscito il 15 Aprile per Toten Schwan Records e Stoned to Death Records, “Nèktar” dei Julinko è un disco che viaggia nell’etere attraversando i quattro elementi. Il progetto musicale, nato a Praga nella primavera del 2015, gravita attorno alla figura di Giulia Parin Zecchin. Musicista, chitarrista e cantante dotata di una straordinaria espressività evocativa, ha infatti alle spalle due full-lenght. Con “Nèktar”, Julinko vede il progetto solista allargarsi a terzetto.

Qui, la sezione ritmica è infatti affidata al basso di Francesco Cescato e alle dita di Carlo Veneziano, già chitarrista nei One Dimensional Man. In “Nèktar”, Carlo Veneziano presta il suo talento alla batteria e al sintetizzatore. Cinque strumenti impiegati a impastare, strato per strato, la beata marea di sangue blu che sono i dieci intensissimi brani di “Nèktar”. Molte le suggestioni e sono vibranti e solenni le alchimie sperimentali che si instaurano tra le diverse componenti del suono.

“Nèktar” dei Julinko è un disco che viaggia nell’etere attraversando i quattro elementi

Chitarre e synth sono in simbiosi in apertura e preparano l’ascoltatore a un sentire altro rispetto senso comune. Pesanti martellate alle pelli e sferzate elettriche alle corde fanno da tappeto alla seducente e mortifera “Deadly Romance”, il brano che apre alla voce di Giulia. Eterea e sognante, trasporta l’esperienza immediata in una sorta di sogno lucido. Non senza dolce violenza. Questa, la mia personale “chiave di lettura” di “Nektar”. Una lettura a palpebre serrate, dove la costante tensione delle corde – di tutte le corde impiegate – tanto ricche e intensive, si traduce in un’allucinata esperienza e feroce intimità.

Il passo di Julinko procede lento, sacrale. Affonda i piedi nella terra sospesa, scoperchiando radici che hanno attecchito anche in aria. Penso a “Hunt”, col suo spettro immaginifico di riverberi oscuri e maestosi. Oppure “Spirit”, una preghiera imbevuta del miglior doom e condita di spettrale psichedelia. “Servo”, unico brano cantato in italiano è un’acme, come profetica. Sembra arrivare dal mondo dei morti, scura nella densità dei suoi riflessi.

Il passo di Julinko procede lento, sacrale. Affonda i piedi nella terra sospesa, scoperchiando radici che hanno attecchito anche in aria.

L’incalzare ritmico di “Death and Orpheus” restituisce una sorta di canaglia nostalgia che emerge dall’ascolto di “Nèktar”. Questa, a mio avviso, è la sua grande bellezza. Un disco che si autodetermina senza celebrazioni, crudo nella sua sperimentazione e che però risulta ricco di pulsione, d’anima. E talento, ovviamente. “Nèktar” parla tante lingue: è animale, terrestre, celestiale, incendiario e profondamente umido. L’aridità contemplata è lasciata alla terra brulla in cui il nulla si affaccia. Ecco, “Nèktar” lo sfiora, lo brama, lo addensa.

A fine ascolto, si desidera fluttuare nel mondo che Julinko ha dipinto nell’altrove. In un moto nostalgico, non privo di scossoni. “The Woods, The Wheel” e l’omonima “Nèktar”– in chiusura – sono due autentiche bombe all’idrogeno. Dissacranti, mistiche, distorte. D’una psichedelia contemporanea, “Nèktar” slega l’incanto del suo spettro cromatico dalla fisica del tempo e dello spazio. Non resta che lasciarsi andare nel disperato quanto vivo tentativo d’essere, nel sogno, liberi, o quasi. Del resto, «sogniamo tutti come viviamo: da soli». Julinko lo sa.