È il 1990. Sulla sponda del Tevere un gruppetto di romani si dimena davanti alla tv, che passa la sfida tra Italia e Argentina. Improvvisamente un’automobile precipita nel fiume, tra l’indifferenza della piccola folla scalpitante. L’interesse, infatti, è tutto su Aldo Serena, che sbaglia il rigore decisivo e mette fine al sogno italiano di conquistare la Coppa del Mondo. E in “Notti Magiche” di Paolo Virzì, quello calcistico, non è l’unico sogno a svanire durante questi anni.
Anche l’età dell’oro del cinema italiano è in piena crisi, sia negli incassi che dal punto di vista creativo. La principale artefice di questo declino è la televisione, che sottrae il pubblico alla sala e si accaparra la maggior parte delle attenzioni dei produttori. Quella stessa televisione che trasmette il calcio e che attrae con la sua luce elettrica lo sciame di registi, attori, sceneggiatori che affollano il film di Paolo Virzì. “Notti Magiche” parla proprio di questo, di ciò che è rimasto del cinema italiano sulla fine del secolo, con le sue promesse, i suoi inganni e le sue silenziose necrosi.
“Notti Magiche” di Paolo Virzì parla di ciò che è rimasto del cinema italiano sulla fine del secolo, con le sue promesse, i suoi inganni e le sue silenziose necrosi.
Tutto comincia da quella macchina finita nel Tevere, dalla quale viene estratto il cadavere di un famoso produttore cinematografico. La polizia concentra le indagini su tre giovani artisti, che si trovavano a Roma per ritirare il Premio Solinas alla migliore sceneggiatura. I tre, interrogati dal commissario, racconteranno tutti gli avvenimenti dei giorni precedenti l’omicidio. “Notti Magiche” utilizza l’espediente della deposizione per ripercorrere l’esperienza dei ragazzi e il loro contatto con la decadente industria del cinema italiano. Il trio sembra preso in prestito da una barzelletta: un toscano, un siciliano e una romana; uno scanzonato Don Giovanni, un intellettuale puntiglioso, un’altoborghese depressa. Tutti personaggi diversissimi, che Paolo Virzì affida nuovamente ad attori emergenti. Questa volta, tuttavia, la spontaneità delle interpretazioni viene mancata, anche a causa di una scrittura troppo caricaturale.
I tre sperimentano droghe, feste e sesso. Sembrerebbe di essere precipitati nell’immaginario di Paolo Sorrentino se non fosse che Paolo Virzì sceglie di non soffermarsi su questo genere di immagini, epurandole dallo sfarzo e da qualsiasi sentore di compiacimento. La narrazione procede così in maniera omogenea, anche se la macchina da presa intercetta una mole eccessiva di dettagli secondari. “Notti Magiche” mantiene un buon ritmo, ma le varie sottotrame aggiungono poco alla complessità dei personaggi e all’evoluzione tematica del film, che rimane sostanzialmente impantanato sulla linea di partenza. La smania di ricostruire la disperata esuberanza dell’epoca, conduce Paolo Virzì a sfogliare nomi, riferimenti e citazioni in maniera ossessiva. Così la struttura dell’opera finisce per cadere vittima della confusione che sperava di mettere in scena diegeticamente.
“Notti Magiche” mantiene un buon ritmo, ma le varie sottotrame aggiungono poco alla complessità dei personaggi e all’evoluzione tematica del film.
L’intenzione di Paolo Virzì era di costruire un ritratto degli anni ’90 romani, inglobando tutto l’assortimento umano che abitava quel decennio. Autori leggendari, giovani speranzosi, raccomandati, accompagnatrici e così via. Persino Federico Fellini fa la sua entrata gloriosa circondato dal fumo di scena del suo ultimo film, come se emergesse da un sogno. È tale la sudditanza nei suoi confronti che, inizialmente, i personaggi evitano di nominare il suo nome, ricorrendo all’utilizzo di epiteti. In “Notti Magiche” Paolo Virzì adotta uno sguardo canzonatorio e nostalgico, a metà strada tra la parodia e la venerazione. Come se volesse suggerirci che quel periodo, tra le pieghe della propria decadenza, celasse un segreto desiderio di rifiorire.
Del resto, quelli in cui è ambientato il film, sono anche gli anni della formazione artistica del regista. Come afferma lui stesso:”mi rendo conto di quanto sia stato liberatorio ripercorrere quella mitologia anche con spirito umoristico. Come fosse in fondo un ultimo saluto, come per saldare per sempre un debito prezioso ma anche ingombrante”. Un’opera necessaria dunque, almeno per quanto riguarda Paolo Virzì. Tuttavia le buone intenzioni dovrebbero sempre essere accompagnate da una valida messa in scena, che in questo caso risulta decisamente povera. L’espediente della deposizione al commissariato, per esempio, è una cornice appiccicata ai capi del lungometraggio, che scansa qualsiasi riflessione sulla soggettività dei narratori.
L’intenzione di Virzì era di costruire un ritratto degli anni ’90 romani, inglobando tutto l’assortimento umano che abitava quel decennio.
Il racconto salta di personaggio in personaggio senza alcuna soluzione di continuità, assumendo la forma di una panoramica ampia, ma ben poco meditata. L’addio di Paolo Virzì al cinema che fu è di certo sentito, ma avrebbe richiesto uno sforzo formale più appropriato. Non molto tempo fa, “La La Land” ci ha mostrato che è possibile omaggiare il passato e, contemporaneamente, raccontare delle storie maestose. Probabilmente anche il cinema italiano, per congedare con dignità la propria età dell’oro, ha bisogno di uno sguardo che riesca a sottrarsi dal rimpiangerla.