Una giornata piovosa quella di martedì 8 gennaio. Ma il Roma Fringe Festival è il festival del teatro indipendente più importante d’Italia, con un afflato cosmopolita non indifferente. A Roma è giunto solo alla VII edizione, ma il Fringe Festival ha radici quasi antiche. Sembra che nella seconda giornata di spettacoli il clima abbia deciso di rievocare la proverbiale umidità di Edimburgo, dove il Fringe Festival è nato. Fortunatamente a Roma non ci lasciamo scoraggiare con poco. D’altronde, conviviamo quotidianamente con servizi che non funzionano.
UN TRAMEZZINO TAUTOLOGICO
“Un tramezzino tautologico” è lo spettacolo di Mauro Tiberi che incuriosisce fin dal titolo. Il tramezzino di tonno al tonno è la scusa che fa parlare Mauro di Martina-da-Siena. Uno scrittore con la sua sensibilità, non poteva limitarsi a registrare la lettura di una fiaba per il compleanno di sua nipote Nausicaa. Le ha raccontato una novella piena di incastri e di rimandi, proprio come quelle de “Le mille e una notte”, proprio come la sua vita, proprio come la vita di ognuno. L’amore che «move il Sole e l’altre stelle» spinge Mauro a una fuga forsennata dall’origine della sua paura, che è la realizzazione completa della sua infelicità. Per mano sua, perché quando è stato il momento di essere felice, ha scelto di non esserlo.
Dunque Mauro è l’Uomo. È la sintesi perfetta dei drammi che tutti insieme creano il brodo esistenziale in cui rischia rimanere sciolto. “Un tramezzino tautologico” è un testo che funziona perché riesce a non escludere un punto di vista femminile sulla questione. Riesce a essere generica, la questione di Mauro. Mi sono chiesta fino a che punto non sia biografica, vista e considerata l’omonimia tra attore e personaggio. Resta il fatto che in un’ora serrata di monologo, per la regia di Paolo Zuccari, Mauro Tiberi tiene il pubblico incollato alle sue labbra. Le reazioni sono giuste: empatia al momento della sofferenza e risata amaramente sarcastica a seguito dell’ironia distanziante e distruggente. Finita la narrazione per Nausicaa, il protagonista esce di scena per compiere l’atto lontano dagli occhi del pubblico, proprio come nella tragedia greca.
“Un tramezzino tautologico” è un testo che funziona perché riesce a non escludere un punto di vista femminile.
La paura è la grande protagonista di “Un tramezzino tautologico”. C’è la paura di non riuscire a realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni. C’è la paura di non riuscire a vivere a fondo. C’è la paura di non sostenere il peso delle emozioni che fanno parte di una vita piena. A ben riflettere, la paura è essa stessa un’emozione. Alla maniera di Friedrich Nietzsche, citato da Mauro Tiberi, è una passione e non un affetto. La differenza tra le due pulsioni che affliggono il soggetto sta, in verità, nella capacità di elaborazione di chi le prova. La paura è una passione quando resta istinto di sopravvivenza. Allora il protagonista è imprigionato, in realtà, in un egoismo che gli impedisce di entrare in relazione con l’altro.
Per questo Mauro è «un perverso dei sentimenti», che sa amare soltanto quando è solo, quando non c’è nessuno da amare. E l’amore descritto da Mauro Tiberi è totale: comprende la sessualità senza essere volgare neanche per un secondo. E, soprattutto, senza rischiare di essere superficiale. “Un tramezzino tautologico” è uno spettacolo che restituisce umanità e contenuto al pubblico, per la delicatezza e la profondità con cui maneggia argomenti importanti. L’unico pelo nell’uovo, proprio a cercarlo, è un dettaglio scenico impossibile da non notare dalle prime file. È il caso di mettere qualcosa nella pentola da cui Mauro cerca comicamente di far cadere il cibo lasciato a marcire dopo mesi di assenza per la fuga dalla realtà.
DENUNCIO TUTTI. LEA GAROFALO
Non conoscevo la storia di Lea Garofalo, da cui prende ispirazione il meraviglioso testo di Giovanni Gentile, curatore anche della regia. Come spesso faccio – e continuerò a fare – decido di leggere meno possibile prima di uno spettacolo. Mi piacciono le sorprese. “Denuncio tutti. Lea Garofalo” prende vita sul palco attraverso Barbara Grilli. La cadenza calabrese con cui profferisce le prime frasi ci aggredisce. Il ritmo della narrazione cambia, perché il fulcro della questione viene aggirato. L’attrice è come una predatrice che circuisce la vittima, che in questo caso è la storia di Lea Garofalo. Il desiderio di prendere appunti – su quelle che sono vere e proprie pagine di Storia mai scritte su nessun manuale e raramente riferite con dovizia di dettaglio dalla cronaca mediatica – è davvero molto forte. D’altronde, non c’è storia più appassionante della Storia.
Magari ogni lezione di Storia fosse così. Probabilmente “Denuncio tutti. Lea Garofalo” sarebbe un antidoto perfetto al disinteresse dei più. E c’è chi insiste a dire che l’arte non debba uscire dal ruolo di svago in cui troppo spesso la contemporaneità la relega. Ascoltare la genesi dell’istituzione Ndrangheta dalla performance di Barbara Grilli è ancora più raccapricciante che se fosse soltanto letta. La magia però avviene in un secondo momento: quando la Grande Storia si intreccia con la biografia individuale della donna straordinaria che è stata Lea Garofalo.
“Denuncio tutti. Lea Garofalo” sarebbe un antidoto perfetto al disinteresse dei più.
Il testo di Giovanni Gentile la restituisce in tutta la sua forza dirompente, anche perché è l’unico modo di farla rimanere davvero con noi. Di lei non è rimasto che un kg di cenere. Forse ridurre il conformismo mediatico esclusivamente a fenomeno contemporaneo è stato un semplicismo. C’è sempre stato, sebbene in modi diversi. Ma è un voler trovare a forza una sbavatura. Forse non esiste il one-woman-show in grado di rendere quel groviglio di personalità che hanno contornato la vita di Lea Garofalo e, non ultimo, lei stessa. Di Barbara Grilli si apprezzano la passione e il coraggio per aver accettato una sfida del genere, che valica i confini dell’attorialità e del teatro d’intrattenimento.
CANDY, MEMORIE DI UNA LAVATRICE
Immaginate cosa accadrebbe se gli elettrodomestici di casa vostra potessero rivelare tutto ciò che bisbigliate a mezza bocca, sicuri che non ci siano orecchie indiscrete ad ascoltarvi. Probabilmente ne saprebbero più loro di qualunque analista. Giulia Galloni è la personificazione di Candy, una lavatrice perfettamente conscia dell’importanza del suo ruolo negli equilibri domestici. Resa come una perfetta signorina di una pubblicità anni ’50, Candy non è una lavatrice come tutte: è ciò che di meglio si può avere sul mercato. Risparmi sul consumo, per prestazioni occasionali. Non è tutto quello che si può volere da una macchina? Lavora instancabilmente senza pesare troppo sul bilancio familiare.
Lo spaccato che emerge dalle confessioni di Candy ha tinte drammatiche. Tra un sorso di ammorbidente e l’altro ci confessa di avere una coinquilina. Elena è una ragazza rumena comprata proprio come Candy, e vive nella stessa dependance, lontano dalla famiglia. È la cruda realtà del caporalato che affiora tra le risatine lugubri di Candy, che inizialmente sembra farsi beffe di Elena. Poi il suo cuore metallico si trasforma in un fascio di emozioni. Sperimentando l’empatia, cerca le parole che potrebbero consolare Elena, se solo potesse sentirla. Lamentando anche la sua condizione, cerca di far capire alla sventurata rumena che in fondo «siamo tutti figli di una schifosissima offerta».
Il copione di “Candy, memorie di una lavatrice” risulta fresco e leggero.
Giovanissima è Iris Basilicata, autrice e regista di “Candy, memorie di una lavatrice”. Il copione risulta fresco e leggero, soprattutto perché non sembra avere l’ardire di scavare in profondità. L’atmosfera da sitcom iniziale risulta essere solo una cornice funzionale attraverso cui l’autrice veicola un fatto di cronaca estremamente serio. Pur fermandosi sulla superficie della moltitudine di temi che potrebbero essere toccati, la scrittura di Iris Basilicata si fa apprezzare nel riuscire a dosare leggerezza e rispetto su un argomento così delicato.
Martedì 8 gennaio è stata la serata dei monologhi. È un peccato che Mauro Tiberi, Barbara Grillo e Giulia Gallone non abbiano beneficiato dei vantaggi prospettici del Palco A. Immagino che già dalle seconde file risulti problematico riuscire a crearsi una giusta visuale dello spazio scenico. Sia ben chiaro, nessuno spettacolo del Roma Fringe Festival sarebbe riuscito ad asciugare l’umidità di ieri. Ma per la durata delle performance ogni spettatore ha dimenticato per un’ora di avere un corpo tremante, rinunciando a soffiarsi il naso. Il pubblico ha restituito con piacere e trasporto parte del calore che gli artisti ci hanno effuso.