La macchina da presa riprende con una panoramica le forme del quartiere nero di Garden Heights, per poi arrestarsi sull’abitazione della famiglia protagonista di “The Hate U Give”. Il padre, Maverick Carter, è seduto a capotavola, mentre ripete ai figli ancora piccoli i dieci punti programmatici delle Pantere Nere, storica organizzazione politica afroamericana. Siamo già nel cuore della storia, all’interno del “ghetto” in cui convivono povertà e ricchezza, gangster e polizia. La violenza proviene da tutte le direzioni, per questo nella famiglia Carter viene sostenuta la difesa dei diritti dei neri ma anche la prudenza. Per tutto il film, il regista George Tillman Jr. tenta di individuare il giusto comportamento da adottare di fronte ad un sopruso, imbattendosi inevitabilmente in drammatiche contraddizioni. È possibile tutelare la propria gente senza mettere in pericolo se stessi e chi si ha accanto?
Il personaggio a cui è affidata questa ricerca è la sedicenne Starr, che narra e commenta in prima persona gli eventi di “The Hate U Give”. La ragazza vive divisa tra due realtà: quella di Garden Heights e quella della prestigiosa scuola Williamson. Nonostante un forte senso di appartenenza al quartiere natale, Starr è felice di allontanarsi da una condizione priva di prospettive. Per farlo, tuttavia, è costretta ad abbandonare i dettagli della sua personalità che la riconducono al “ghetto”, come l’utilizzo dello slang locale. Quella della Williamson è una Starr 2.0, come afferma lei stessa nel film. L’evento che farà collassare questo equilibrio è la morte del suo migliore amico Khalil, avvenuta per mano di un poliziotto bianco. La tragedia diventa un caso di cronaca e la ragazza, essendo l’unica testimone oculare, dovrà scegliere come conciliare l’improvviso impatto mediatico con la sua vita tra i bianchi.
George Tillman Jr. mette molta carne sul fuoco. La narrazione si fa largo tra spaccio di droga e pregiudizi razziali. “The Hate U Give” dura 133 minuti ma non ci si annoia.
George Tillman Jr. mette molta carne sul fuoco. La narrazione si fa largo tra spaccio di droga, pregiudizi razziali, elaborazione della cultura afroamericana nei giovani bianchi. Insomma, “The Hate U Give” dura 133 minuti ma non ci si annoia. Lo spettatore ha sempre delle questioni su cui riflettere, che il regista ha la premura di trattare con intelligenza. La morte di Khalil è il punto cruciale della storia, la crepa dalla quale si diramano infinite altre problematiche. Anche a livello registico, dopo l’accaduto, il film subisce un brusco cambiamento di stile. Nella prima parte, per esempio, la colonna sonora è molto più presente. Tupac e Kendrick Lamar accompagnano sequenze in ralenti in cui i ragazzi ballano e si divertono. Successivamente la musica viene sostituita da dialoghi più gravi. Si scherza ancora, soprattutto in famiglia, ma l’atmosfera si fa drammatica, come se fosse legata allo stato d’animo di Starr.
“The Hate U Give” ha il merito di mettere in scena una visione stratificata, che assorbe il punto di vista di Starr e quello dei molti personaggi secondari.
La ragazza filtra gli eventi, ma il tema del film non viene affidato solamente alla sua voce. Durante le indagini per la morte di Khalil c’è chi chiede vendetta, chi prende le parti del poliziotto, chi sceglie una via di mezzo. L’ufficiale ha sparato perché ha visto una pistola dove c’era una spazzola per capelli. È giusto distruggerlo? Per Starr si, ma forse le cose non sono così semplici. Persino il poliziotto viene rappresentato come vittima dell’inesperienza e della paura, senza ovviamente deresponsabilizzarlo. Un pregiudizio è in gran parte generato dal contesto sociale, ma l’azione ricade sul singolo.
Il film sembra dirci che chi ha sparato non è sempre un mostro, ma di certo è un assassino. “The Hate U Give” ha quindi il merito di mettere in scena una visione stratificata, che assorbe il punto di vista di Starr e quello dei molti personaggi secondari. L’unico contributo più autorevole degli altri sembra essere quello di Tupac, più volte citato nel corso del film. Per lui quello che la società mostra e infligge ai bambini prima o poi torna indietro. La profonda convinzione alla base del film è che, per cominciare a risolvere qualche problema, sia necessario innanzitutto che i più piccoli non abbiamo alcun odio da restituire.