Da questa settimana mi sento ancora più obbligato a scrivere questa rubrica per voi. Con le temperature in netto calo, se diversamente dal sottoscritto non siete stati le prime visite designate dell’influenza autunnale, non c’è periodo migliore per andarsi a richiudere in sala. La stagione cinematografica è oramai avviata, i multisala si ritrovano file chilometriche davanti alle casse, le macchine dei popcorn sono più imburrate che mai. Non avete scusanti per non andare al cinema. Questa settimana abbiamo due film di due degli autori tra i più importanti del panorama internazionale, belli impacchettati dall’ultimo Festival di Cannes. Cosa li accomuna? La presenza di quel gran “simpaticone” di Adam Driver aka Kylo Ren. Questo è il TRAILER FRIDAY, e questi sono i film della settimana selezionati per voi!
L’UOMO CHE UCCISE DON CHISCIOTTE
Per poter parlare di un regista come Terry Gilliam ci vorrebbero pagine e pagine di scritti, eppure non sarebbe mai abbastanza. Dal suo ingresso nei Monty Python negli anni ’60, con tutta la loro brillante carriera tra televisione, teatro e cinema, fino al suo esordio dietro la macchina da presa da solista in “Jabberwocky” del 1977, ha letteralmente creato e ampliato un suo personale universo cinematografico. La sua esperienza da cartoonist ha dato il suo notevole contributo, congegnando mondi deliranti carichi di dettagli riconducibili ad una sfera culturale che parte dalla storia dell’arte, per passare alla letteratura inglese, fino alla cultura steampunk, e non solo. Basti vedere la sequenza del trip nel bar di “Paura e delirio a Las Vegas” (1998) e l’ospedale psichiatrico con il folgorante personaggio interpretato da Brad Pitt ne “L’esercito delle 12 scimmie” (1995). O più semplicemente un film come “Brazil” del 1985, uno dei migliori a mio avviso della sua filmografia, per riuscir almeno ad intravedere la mente geniale e pazzoide del sesto Python.
Trasporre il celebre romanzo dello scrittore Miguel de Cervantes è stata una scommessa artistica ad alto rischio.
Con “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, Terry Gilliam finalmente porta a termine un’odissea lunga quasi vent’anni. Il film ha avuto una produzione travagliata, con diversi cambi di rotta e di cast. Tanto che ne fu fatto un documentario nel 2002: “Lost in La Mancha”, che segue il fallimentare progetto della prima realizzazione del film, con Johnny Deep nel ruolo di Toby Grisoni e Jean Rochefort in quello del celebre hidalgo spagnolo. Lo scorso anno dopo innumerevoli tentativi per far ripartire l’opera, lo stesso Terry Gilliam ha annunciato l’inizio delle riprese con protagonisti Adam Driver e Jonathan Pryce. Ma non si può sempre cantar vittoria. Prima della recente edizione del Festival di Cannes, si vociferava la possibilità di una presentazione del film alla kermesse francese. Dopo una battaglia legale con il produttore Paulo Branco e un ictus che ha colpito il regista, il film è stato infine presentato Fuori Concorso.
Con “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, Terry Gilliam finalmente porta a termine un’odissea lunga quasi vent’anni.
Una vittoria clamorosa per il regista americano, insomma, che da tutta questa epopea è uscito a pezzi ma glorioso. E con un tweet con tanto di foto annessa, mentre indossa una maglietta con scritto: “I’M NOT DEAD YET”. Trasporre il celebre romanzo dello scrittore Miguel de Cervantes è stata una scommessa artistica ad alto rischio, vista la complessità della sua matrice letteraria. Non ha dato problemi solo a Terry Gilliam, ma anche ad un regista come Orson Welles, che abbandonò la produzione della sua trasposizione, che fu poi presentata postuma ed incompiuta. “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, quindi, non è un film da lasciarsi sfuggire, anche solo in virtù dei quanto il suo creatore ha voluto e dovuto combattere per mostrarlo a noi spettatori. Tuttavia, tralasciando la funesta vicenda produttiva, è consigliato a tutti quelli che vogliono trovarsi davanti ad un film unico nel suo genere, in grado di appagare gli occhi e lo spirito. E a chi ama una narrazione folle come solo Terry Gilliam e pochi altri sanno ancora fare.
BLACKKKLANSMAN
Vi parlo di un altro grande ritorno, anche questo direttamente dall’ultima edizione del Festival di Cannes, con la vittoria del Grand Prix Speciale della Giuria: Spike Lee con “BlacKkKlansman”. Dopo un periodo un po’ giù di tono per il regista di Atlanta, e svariate produzioni, tra serie tv e documentari, il regista torna nel pieno stile delle sue opere più acclamate. Spike Lee non ci trascina solamente nella storia dell’America in piena tensione politica degli anni ’70. Con un gioco in cui riesce a far convergere cinema di genere e metatestualità, realizza un film portatore di un forte punto di vista critico sulla condizione sociale degli afroamericani e su Hollywood, facendolo risultare leggero e accessibile a qualsiasi spettatore. La storia si basa sul libro omonimo del detective Ron Stallworth, primo agente nero di Colorado Springs, che negli anni ’70, grazie all’aiuto di un suo collega, riuscì ad infiltrarsi e affiliarsi nelle vette della sede del Ku Klux Klan della città.
Spike Lee riesce così a dare il suo smacco definitivo ad Hollywood e alla sua veste liberal promossa negli anni.
Spike Lee dalla prima inquadratura in cui mostra una celebre sequenza della guerra civile di ’Via col vento” di Victor Fleming, vuole subito far presente allo spettatore, che non si tratta solo di un film biografico. Piuttosto una riflessione sul modo in cui Hollywood,dagli albori abbia sempre rappresentato la comunità black, e di come, edulcorando il tutto, abbia promosso la supremazia bianca. La stessa supremazia motivatrice dell’animo degli affiliati del Ku Klux Klan e delle loro battaglie. Tuttavia Spike Lee riesce sapientemente a darci una visione complessiva della questione. Non solo mostrandoci le folli intenzioni del gruppo dei bifolchi whitetrash di Colorado Springs e del loro ammaliante capo David Duke, ma anche facendoci prendere la consapevolezza di come la dream factory ha avuto, e continua ad avere, la sua dose di responsabilità sull’argomento.
Il monito che rende ancora più sensazionale la riuscita di “BlackKklansman”, è il modo in cui affronta il discorso con ricche dosi di humour.
Spike Lee riesce così a dare il suo smacco definitivo ad Hollywood e alla sua veste liberal promossa negli anni. Il monito che rende ancora più sensazionale la riuscita di “BlackKklansman”, è il modo in cui affronta il discorso con ricche dosi di humour preso in prestito dai film Blaxploitation e i polizieschi del periodo. Alternando momenti esilaranti e di azione, con vere sequenze dall’impatto emotivo più forte, specialmente quando vengono raccontate le rappresaglie subite dalla comunità, Spike Lee accompagna lo spettatore alla consapevolezza dei fatti raccontati e alla sua presa di posizione a riguardo. Non sceglie la strada del discorso moralizzatore o del politically correct, ma tramite alcuni escamotage registici e di montaggio ci fa arrivare autonomamente al punto del film. In questo si vede la bravura di un grande regista, nel sapere allo stesso tempo saper divertire, sorprendere, e far riflettere lo spettatore. Non solo sulla storia o sul racconto narrato nel film, ma nel suo complesso, mettendo in ballo tutte le parti coinvolte, e sopratutto nella sua tragica attualità nel presente.