A volte ritornano. “Copenaghen” ha ormai acquisito nelle nostrane coscienze teatrali i volti del prestigioso trio composto da Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice. Lo spettacolo di Michael Frayn, pluripremiato ai quattro angoli del globo, calca le scene italiane da ormai 19 anni. Non molti di meno rispetto all’età di un testo che venne inscenato per la prima volta nel 1998 al Royal National Theatre di Londra. Ogni volta è bello rivedere, per diverse ragioni, lo spettacolo diretto da Mauro Avogadro. Gira voce che sia l’ultima tornata per questo inappuntabile monumento scenico. Ma, chissà, dopo quasi un ventennio sembra impossibile scompaia dai cartelloni. Nel dubbio andate a vederlo al Teatro Argentina. “Copenaghen” è la quintessenza di un modo di fare teatro che incastra gli ultimi stilemi del Novecento nei primi del Duemila. Riassume e monumentalizza una transizione culturale, offrendosi parallelamente come un raffinato documento della storia della disciplina.
Niels Bohr, Nobel per la fisica nel 1922, fu tra i più alacri studiosi della fissione dell’uranio, ovvero del meccanismo fondamentale all’innesco della bomba atomica. Tema scottante durante la guerra, con le grandi fazioni contrapposte anche nella corsa a costruire la risolutiva arma nucleare. Nel settembre del 1941, con la guerra quanto mai in bilico, ricevette a Copenaghen la visita di Werner Heisenberg, ex-assistente legato al maestro da un rapporto quasi filiale. Che però nel 1941 figurava a capo del gruppo di studiosi tedeschi cimentantisi nello stesso micidiale campo di ricerche. Cosa si dissero i due? Quali informazioni si scambiarono o non si scambiarono? Come si parlarono nell’emozione di un ricongiungimento sovraccarico di tensioni tanto personali quanto infinitamente più grandi di loro, grandi come la Scienza e la Storia, di lì a poco stravolte nel frastuono di Morte e Progresso?
La dimensione della frattura che “Copenaghen” mette in scena è titanica.
Intorno a queste domande ruota l’opera originale e, con essa, la tetragonale regia di Mauro Avogadro. Convogliare il senso di un conflitto totale richiede un lavoro titanico, su molti livelli. Di drammaturgia, di traduzione, di parola, di scenografia, in primis. Perché titanica è la dimensione di quella frattura che “Copenaghen” mette in scena. Una frattura a cavallo fra la fisica classica e quella quantistica, fra il mondo come struttura dotata di senso unico e ordinato, e il caos relativistico. Fra il cosmo teocentrico del Reich e quello contradditorio ma libertario della democrazia moderna. Che viene illuminata nella sua natura di costruzione fragile, precariamente poggiata sull’inesistenza di una Verità che sia Una. Proprio come il principio di indeterminazione enunciato da Heisenberg evidenziava, pur nel suo linguaggio tecnico. L’opera di Fryn e la sua eccezionale versione vista sul palco del Teatro Argentina mirano a decriptare l’esoterismo scientifico di quella formulazione.
Lo fanno coi mezzi propri del teatro. La scena è una cava ellittica, cinta da un crescendo di lavagne istoriate di formule. In relazione a quest’ellisse si dispongono gli attori, occupandone i fuochi, o orbitando sul palco alla ricerca di un abbraccio da ricostituire. Così sposano la monumentalità dei personaggi al loro essere materie umane, parametrate all’Infinito e pur sempre finitissime. Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice sono tre maestri che dominano la parola, sciogliendo le asperità di una partitura verbosa in una gestualità euritmica. Ricercata ma sempre al servizio del testo, offerto in una recitazione densa e limpida. Viene da notare che la parola recitazione è sempre meno corrente nel vocabolario specialistico, relegata all’idea di un teatro di maniera, superato dai linguaggi contemporanei. A un teatro che – per dirla con Eugenio Montale, ricordato da Mauro Avogadro – “è fondato sul valore della parola e non sui trucchi dell’arte spettacolare”.