1989., benvenuto su Music.it! Diamo inizio a questa intervista con un tuo ricordo: racconta ai lettori un aneddoto legato alla tua carriera musicale, meglio se strano e imbarazzante!
Un saluto alla redazione e ai lettori di Music.it. L’aneddoto più strambo della mia storia musicale è la mia esibizione all’A38 Ship, storico live club di Budapest. Nel settembre 2014 pubblicai su YouTube il video di una nuova canzone, “Django Boogie”, scritta su un remix di un brano di un gruppo ethno-funk ungherese fichissimo, i Kerekes Band.
Insomma, i Kerekes Band mi commentano il video super entusiasti, da lì iniziamo a parlare un po’, e alla fine mi invitano come ospite al live di presentazione del loro nuovo disco, all’A38 Ship di Budapest, appunto, per cantare “Django Boogie” con loro (il nome del loro pezzo originale è “Csango Boogie”). È stata emozionante e al tempo stesso buffa come esperienza. Loro sono belli famosi in patria, quindi il locale era strapieno. Mi faceva ridere vedere che il pubblico non stesse capendo assolutamente niente di quello che rappavo, ma si fomentava lo stesso (Qui il video dell’esibizione).
Hai iniziato a scrivere rime a 16 anni sotto il nome di FunkyD, ora il tuo nome d’arte è 1989. Spiegaci cosa ti ha fatto cambiare idea e perché.
FunkyD, che originariamente era Funky Drummer, è un nome che scelsi agli inizi della mia carriera. È il classico nome da rapper old school, che col passare degli anni ha iniziato a piacermi e a rispecchiarmi sempre meno. Quindi l’idea di cambiarlo si faceva sempre più forte, e mi stuzzicava quella di chiamarmi con un numero al posto di un nome. Quindi ho scelto il 1989, un po’ perché è il mio anno di nascita, un po’ per richiamare 1984 di George Orwell. Sono sempre stato in fissa col concetto dei numeri nella nostra società: più ci omologhiamo, più appiattiamo le nostre vite, più diventiamo più simili a dei numeri che a delle persone; i numeri che abbiamo scritti nel conto in banca contano sempre più di ogni altra cosa; i numeri che fa la musica di un artista contano più della sua musica stessa, etc. etc.
Nel corso del tempo, quali sono state le variazioni principali subite dalla tua musica?
Nei primi anni della mia carriera prediligevo una scrittura più astratta e criptica, metaforica, “da interpretare”. Col crescere, col mutare del mio quotidiano, delle mie necessità, e di quello che ho intorno, ho iniziato a preferire una scrittura più diretta, che arriva dritta al punto, ma sempre con una vena di sarcasmo, perché l’essere troppo incazzato non mi si confà.
Quali sono gli album che hanno segnato e lasciato un’impronta lungo il tuo percorso musicale?
Di album e artisti che mi hanno segnato ce ne sono moltissimi, ma ne cito due, che sono tra l’altro dischi di amici:
Dei Quinto Mondo, l’album “Il movimento”, perché è la storia del rap della mia città, di tre ragazzi che ho sempre visto come dei miei “padri musicali”, e perché quel disco mi ha aperto le porte alla rivoluzione dell’anima, la rivoluzione mentale.
Dei Kento & the Voodoo Brothers, “Radici”, perché ho un bellissimo ricordo del periodo in cui uscì. Io facevo le doppie voci a Kento nelle date romane del tour, e ho avuto la possibilità di conoscere e lavorare con musicisti pazzeschi. Lì, in quel preciso momento, secondo me c’è stato un piccolo scatto in positivo nel mio modo di fare e concepire la musica.
Luigi Pirandello scrisse: «Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti». Questa frase mi è tornata in mente all’ascolto del tuo nuovo singolo “Conosco uno, che conosce uno”, brano che racconta delle diverse personalità. Quanto è complesso, secondo te, riuscire ad essere sé stessi agli occhi degli altri nell’odierna società e perché? Quanto è difficile, invece, accettarsi per quelli che siamo?
Per me è sempre stato difficilissimo accettarmi. Ognuno ha tanti lati del proprio modo di essere che non riesce ad accettare. Personalmente, anno dopo anno, piano, piano imparo ogni volta ad accettare un lato di me che prima ripudiavo o cercavo di sopprimere. L’accettazione di sé stessi è un percorso, c’è chi impiega di meno e chi impiega di più a percorrerlo.
La società di oggi, poi, è totalmente basata sull’invidia e fa continuamente sentire inadeguati; non fa altro che sbatterti in faccia modelli di vita con standard altissimi a cui ambire: le vite perfette degli influencer, rapper/trapper che “fatturano”, manager aziendali, ragazze col fisico perfetto. Basta che uno cresca con un pizzico di insicurezze in più, ed è normale che si senta inadeguato.
In quale particolare periodo della tua vita hai scritto questa canzone? Quanto credi sia importante la musica in un periodo come quello che stiamo vivendo?
L’ho scritta nell’estate del 2020, quindi è abbastanza recente. Per me è stata importantissima la musica da quando è iniziata la pandemia. Il primo lockdown non l’ho sofferto molto anche per questo: mentre molti miei conoscenti non sapevano come impiegare le giornate, io l’ho visto come un periodo per starmene per fatti miei a scrivere, ed è quello che ho fatto. Ora inizio a soffrirlo un po’ di più, mi manca un sacco la musica dal vivo, sia farla che vederla.
Manca moltissimo anche a noi…
Onestamente non so cosa pensare, se da un lato la situazione Covid migliora a passi lentissimi, e quindi ci sta andare cauti con le riaperture, è pur vero che la musica e gli eventi culturali in generale, per la loro importanza che non tutti sembrano aver afferrato, andrebbero trattati alla stregua dei centri commerciali, delle chiese, e dei ristoranti, per dire. Invece mi sembra che il governo stia usando due pesi e due misure, e i posti della cultura vengano considerati “sacrificabili”.
Cosa spaventa 1989.? Quale è la sua più grande paura?
L’idea di passare una vita a fare un lavoro che non mi piace, solo per stare tranquillo economicamente.
Ho invertito questa tendenza che avevo preso un anno e mezzo fa, licenziandomi dal mio posto fisso. Non mi interessa l’auto nuova, lo smart Tv, la casa da sogno, se per avere queste cose devo passare la maggior parte della mia vita chiuso in un ufficio. Mi basta solo vivere dignitosamente con quello che mi piace fare.
Il singolo “Conosco uno, che conosce uno” precede l’uscita del tuo primo album ufficiale, “Gente che odia la gente”. Cosa puoi dirci a riguardo? Cosa dovranno aspettarsi i tuoi ascoltatori?
Sicuramente un disco carico di contenuti e spunti di riflessione, chi mi segue sa che quello non mancherà mai nella mia musica. Non sarà propriamente un concept album, ma ci saranno dei temi ricorrenti, come si capisce dal titolo. È il frutto degli ultimi miei anni passati a pensare, a riflettere e analizzare certi modi di fare e di comportarsi della gente, appunto, e a quanto l’odio tra gli esseri umani sia sempre più dilagante.
1989., la nostra intervista è giunta al termine ed io ti ringrazio per essere stato con noi. Saluta i lettori con una citazione o, se preferisci, con una frase tratta dalle tue canzoni! Grazie e a presto!!!
Grazie a voi per l’attenzione! Non mi piace autocitarmi, quindi vi lascio con una frase di uno dei miei artisti preferiti in assoluto, Tom Waits; un suo aforisma che mi dà una forza incredibile tutte quelle volte che ho dubbi sul fatto che quello che sto facendo, musicalmente parlando, sia la strada giusta:
«Preferisco un fallimento alle mie condizioni, che un successo alle condizioni altrui».
La strada che stai percorrendo è sempre quella giusta, se hai scelto tu di percorrerla.
Un saluto a tutti.