L’esergo iniziale che ripropone in chiave citazionista una frase di Giorgio Manganelli, «Tutto documentato, tutto arbitrario», apre la prima parte di “Loro”, ma quello a cui si assiste è il tradimento di quanto virgolettato. Paolo Sorrentino mette le mani avanti stavolta, e addirittura lo fa per due volte, quando decide – o gli viene imposto? – di dichiarare prima dei titoli di testa la natura soggettiva e artistica del suo progetto. Se quindi è vero che i fatti e i nomi presenti nel suo film sono solo ingredienti di una lettura personale, perché citare anche Giorgio Manganelli? Ribadimento? Precisazione? O piuttosto una contraddizione?
Sono domande che ci si pone lucidamente, senza voler cadere nella trappola del relativismo. Ma le risposte a cui si giunge – riservandosi di poter correggere il giudizio dopo la visione della seconda parte (“Loro 2” in uscita tra due settimane) – delineano una pellicola cerchiobottista, coraggiosa solo in fase pre-produttiva. Stavolta il difetto non è da ricercare neppure nello stile del regista, purissimo in tutte le sue cifre, che possono non piacere, ma tant’è. Quanto piuttosto nell’aver scartato la chiave di lettura unica tra le tante possibili, finendo per provarle un po’ tutte. Alla fine nessuna porta si apre, e si finisce per spiare dal buco della serratura. Ma siamo proprio sicuri che quello che sta nella stanza ci interessi davvero? La cronaca italiana è troppo recente per farsi Storia, e l’Italia berlusconiana di fine ventennio è ancora immutata, dopotutto, per stimolare una qualche curiosità nostalgica.
«Tutto documentato, tutto arbitrario», apre la prima parte di “Loro”, ma quello a cui si assiste è il tradimento di quanto virgolettato.
Paolo Sorrentino seleziona gli apparenti ultimi scampoli delle esibizioni vitali di Silvio Berlusconi, ma di queste ci restituisce solo un romanzata racconto terzo, quello costruito da Loro, quelli che contano, e che orbitano a distanze diverse da Lui. Il nome politico non viene fatto fino alla seconda parte del film, laddove la prima è servita a costruirne il mito – oltre che a prolungare l’attesa della maschera del Cavaliere, tatuata su un sedere prima e indossata da Toni Servillo poi. Il racconto filato dal regista adotta un modello preliminare, quello che preferisce ricreare il fatto mostrandone gli atti. Questi hanno la consistenza di volti e corpi, di seni e cocaina, di corruzione politica e appalti truccati.
Un’orgia di simboli che rimanda alla prima mezz’ora de La grande bellezza (2013) e che qui si mescola ai riferimento a questo e quello. Si percepisce che Paolo Sorrentino avrebbe voluto nominare i veri protagonisti – Giampi Tarantini/Riccardo Scamarcio, Patrizia Daddario/Euridice Axen, Nicole Minetti/Kasia Smutniak, Bondi-Formigoni/Fabrizio Bentivoglio – ma non potendolo fare, si limita ad aggirare l’ostacolo non nominandoli oppure a cambiargli nome. A dimostrazione dei numerosi percorsi avviati dal regista, al suo giro di boa il film si fa inutilmente esplicito e i personaggi vengono nominati direttamente. Non solo Silvio Berlusconi, che non è più Lui, ma anche Veronica Lario/Elena Sofia Ricci, Mariano Apicella e Noemi Letizia.
Il vero era più finto della finzione già fuori dallo schermo. Paolo Sorrentino avrebbe giovato dal prendere soltanto spunto da questi anni dal fascino irresistibile.
Stiamo parlando però di personaggi prima del film, persone già realmente sovraccariche che avrebbero potuto ispirare il racconto anziché diventare delle macchiette, parodia di volti parodici. Il vero era più finto della finzione già fuori dallo schermo. E Paolo Sorrentino avrebbe giovato dal prendere soltanto spunto da questi anni dal fascino irresistibile. Da episodi e volti dal carisma cinematografico già palese, e che si sarebbe conservato comunque anche senza il trucco caricaturale del protagonista e senza le altre didascaliche rappresentazioni. Berlusconi è Berlusconi per quello che ha fatto e che fa, non per la panza o il trapianto da calciatore del calciobalilla. E lo stesso vale per i coprotagonisti della sua vita reale. Alla fine tutto questo baraccone facilmente identificabile finisce per apparire come un contenitore strabordante fatto di personaggi tipo, dei condensati di brutture iperrealistiche nostrane.
Rimandata l’apparizione di Lui fino a oltre metà pellicola, Paolo Sorrentino sceglie di cucire quanto detto con quanto ancora dovrà dire nella seconda parte di questo film e in “Loro 2” con una scena troppo facilmente leggibile nella sua costruzione metaforica oltre che nella versione napoletana. Mentre un gruppo di olgettine antelitteram passeggia all’ombra del Colosseo, una pantegana, a cui viene anche concessa una soggettiva, attraversa la strada, e per scansarla un camion della spazzatura precipita sulle rovine romane. A questo punto, un’esplosione di rifiuti si trasforma in una pioggia di ecstasy, e da Roma si arriva in Sardegna.
Molto rumore per nulla, o meglio tanta bellezza per niente. Ciò non toglie che sia proprio il Vuoto il protagonista del cinema di Paolo Sorrentino.
Tralasciando la smodata fattura registica, compiaciuta e non necessaria, che, proprio dopo la transizione da Roma a Villa Certosa, si esibisce noiosamente nella versione esponenziale a bordo piscina delle serate in terrazza sulle note di Raffaella Carrà, il tono della seconda parte predilige una declinazione sentimentale più umana e meno artificiosa. Dall’opera sorrentiniana infatti trapela una certa simpatia per l’uomo Silvio Berlusconi e per il suo savoir-faire poliedrico e innegabile. L’ex premier è un personaggio sorrentiniano prima di Paolo Sorrentino, una figura che non necessita della distorsione grottesca con cui il regista costruisce tutti i suoi personaggi. Una figura che è già di suo distorta.
Ed è forse per questo che proprio Lui sembra sia il solo a beneficiare di una ripulitura formale. Il pensiero berlusconiano si riassume efficacemente in poche battute. Applicato al protagonista il succitato modello preliminare ritorna e funziona efficacemente. Gli eccessi barocchi non toccano la figura di Silvio Berlusconi, affidandogli le più classiche chiose sorrentiniane, frasi ad affetto che risuonano come aforismi sullo sfondo di un vuoto esistenziale pur sempre bellissimo. Molto rumore per nulla, o meglio tanta bellezza per niente. Ciò non toglie che sia proprio il Vuoto il protagonista del cinema di Paolo Sorrentino. E, se un film non deve essere mai giudicato per quello che avrebbe potuto essere, allo stesso modo deve essere giudicato per quello che è effettivamente e non intenzionalmente.