Abbiamo Daniele Sanzone degli ‘A67 su Music.it. Direi di iniziare rompendo subito il ghiaccio e mettendoti a tuo agio. Vorrei che tu mi raccontassi un aneddoto particolare e imbarazzante che vi è capitato durante la vostra carriera.
Eh, ce ne sono capitati un bel po’. Quando uscì “‘A camorra song’io” alcuni esponenti del clan Di Lauro, vedendoci in televisione, si chiesero chi fossimo noi che osavamo parlare male della camorra in giro e in TV. Attraverso un amico in comune – un cantante neo melodico – ci fecero sapere che volevano venirci a parlare, per spiegarci che in realtà la camorra era qualcosa di positivo, che offriva lavoro. Questo nostro amico riuscì a difenderci dicendo loro che noi eravamo bravi ragazzi, leggevamo libri e che non avremmo mai osato metterci contro i Di Lauro (ride). Non sono mai venuti, ma questa storia ci colpì molto.
Beh, ci credo!
E quelli del clan dissero, vicino a questo cantante amico in comune: “Ma non abbiamo capito una cosa, ma se la camorra sono loro, noi chi siamo?”, questo perché il disco si chiama “‘A camorra song’io”, quindi in qualche modo si sentirono spodestati. Entrarono in crisi d’identità non capendo il vero significato del disco.
Sì, un aneddoto bello forte. E sono passati diversi anni dal vostro ultimo lavoro discografico. Cosa è successo in questo tempo, e perché “Naples Calling” arriva solo ora?
Ci siamo presi del tempo per realizzare un disco per noi rivoluzionario, nel suono e nel linguaggio. Volevamo un sound internazionale, e da qui la scelta di Massimo D’Ambra come produttore. Poi abbiamo incontrato un po’ di gatti e volpi durante il cammino, che ci hanno rallentato un po’. Ci hanno illuso e fatto perdere tempo, ma alla fine, come sempre, siamo riusciti a portare a casa il risultato. Abbiamo realizzato il disco che avremmo sempre voluto fare.
Possiamo dire che questo tempo è servito.
Sì, ci siamo confrontati con un suono completamente nuovo per noi.
In effetti è un sound diverso dal passato. Molto attuale, come i concetti. Si parla di amore, quello impegnato, il non provarci fino in fondo, denuncia sociale, guerra dei likes. Come è nata questa necessità di raccontare queste verità in “Naples Calling”?
Ciò che forse non è mai cambiato, è la nostra attitudine. Il nostro sguardo sul mondo è identico a quello degli inizi, dell’esordio, appunto con “‘A camorra song’io”. Quell’album è uscito in piena faida di camorra, tra il 2004 e il 2005, e anche lì non le mandavamo a dire certamente. Eravamo schierati, ed era un impegno trasversale. Nel senso che non siamo mai stati ideologici, abbiamo sempre cercato di raccontarci e di raccontare ciò che ci circondava. E credo che, in questo senso, “Naples Calling” sia molto simile al primo, paradossalmente. Dove cerchiamo di indagare un po’ le contraddizioni della società in cui viviamo, senza rinunciare all’amore, all’impegno. Abbiamo cercato di raccontare anche l’assuefazione dai social; di quanto questo abbia quasi alienato le nuove generazioni e le abbia quasi sedate, no?
E c’è dell’altro.
C’è l’assenza di 40 anni, a questa parte, di un colpevole; in un paese in cui ci sono ancora i misteri, le stragi irrisolte. C’è gente che cerca verità e giustizia da una vita. Il concetto del male minore, dove ironicamente lo confrontiamo e paragoniamo a un malanno, una sorta di ipertensione. Come diceva Hannah Arendt: «Chi sceglie il male minore dimentica troppo in fretta di aver scelto comunque un male». I temi sono rimasti uguali, ma forse è cambiata un po’ la modalità, l’approccio, che ora è un po’ più ironico. Ma non è cambiata la rabbia, la cattiveria.
In che senso?
La title-track credo sia uno dei brani più cattivi che abbiamo mai scritto. Ci siamo immaginati, citando “London Calling” dei The Clash nel quarantennale, che Napoli chiamasse sé stessa attraverso una maschera, Pulcinella. Che pur di svegliare il proprio popolo dalla rassegnazione arrivasse a un gesto estremo, cioè quello di incendiarsi in mezzo Piazza Mercato. Come Ian Palach nella Primavera di Praga, o come Mohamed Bouazizi che ha dato il via alla primavera araba. Quindi un Pulcinella rivoluzionario, che si immola per salvare il proprio popolo. Sperando in una nuova primavera italiana.
Mi hai parlato anche de “Il Male Minore”. Sappi che chiunque mi dirà in futuro “ho scelto il male minore”, glie la farò ascoltare senza dubbio. L’avete descritta come “melodicamente scorretta e politicamente ballabile”, cosa vuol dire?
Sicuramente è ammiccante il suono, anche nella melodia. Però è politicamente ballabile: negli anni abbiamo capito che a vera sfida era quella di riuscire a mantenere un linguaggio, veicolare un messaggio di un certo tipo senza risultare pallosi. Quando sì pensa al gruppo impegnato, spesso si pensa al gruppo pesante (ride). Venendo da una tradizione musicale importante, quella napoletana, abbiamo sempre cercato di mantenere ben fermo il discorso musicale. Ci piaceva l’idea di avere un ritornello molto orecchiabile, ma che allo stesso tempo facesse riflettere. Non lo so se ci siamo riusciti, però ci abbiamo provato (ride)!
Per me va benissimo così! E una curiosità sui video, invece. Quanto hai sofferto?
Mamma mia, non ne parliamo (ride)! M’hanno ucciso. Devo confessarti che sono stato addirittura dall’oftalmico, in ospedale. Sì, perché a un certo punto mi arrivano dei coriandoli addosso, ma sparati tramite scoppio da un tubo che genera un botto grazie all’aria compressa. Come quelli di capodanno, insomma. Siccome erano a distanza molto ravvicinata, è come se mi fosse arrivato un cazzotto nell’occhio. Io correvo su un tapis roulant, e sono caduto. È stata una tragedia. Ho preso delle gocce e mi sono curato, niente di grave, ma è stato davvero faticoso girare quel video (ride). Però divertente.
Visto, abbiamo tirato fuori un altro aneddoto imbarazzante. Ma ecco, anche la ridicolizzazione, fammi passare il termine, fa parte del messaggio del brano?
Guarda, quella è stata l’interpretazione di Cosimo Alemaghi, uno dei più grandi videomaker italiani. A posteriori ti dico che forse quello è stato il male minore, perché potevano ammazzarmi direttamente con un colpo in fronte (ride). Invece è stata una tortura, che in qualche modo mi ha lasciato vivo. Mi ha mandato in ospedale, però sono ancora qui a parlare con te. È il male minore.
E che differenze ci sono rispetto ai precedenti lavori?
Il nostro primo album, uscito in un momento storico molto forte e intenso, è molto variegato. Ci sono molte canzone d’amore e un sound diversificato; si passa dal reggae, al funk, al rock fino al nu metal di “‘A camorra song’io”. Il problema è che quel titolo, “‘A camorra song’io”, finì per monopolizzare l’intero album, e quindi l’intera idea del nostro gruppo. Ma noi siamo sempre stati, tra virgolette, innamorati, ma anche incazzati (ride). Quel pezzo, quel disco, in quel momento storico, ha finito per definirci quello che in parte siamo sicuramente. Una combat band: una band di impegno sociale forte, anche se mai ideologica. La nostra politica è sempre stata quella di stare in mezzo alla gente; nel senso greco del termine proprio di police. E quindi il nostro impegno sociale e civile è sempre stato trasversale, anche se si capisce perfettamente da che parte stiamo pur senza alzare bandiere.
Meglio farlo che dirlo.
Alla fine sono le scelte che determinano effettivamente da che parte stai. Noi siamo sempre stati persone che non hanno mai elemosinato la propria opinione, abbiamo sempre preso posizione. E da queste si capisce da che parte stiamo. È chiaro che stiamo a sinistra, ma siamo di una sinistra che probabilmente non si riconosce nel PD. Non si riconosce nella parte del Movimento 5 Stelle. Insomma, prendiamo posizione sempre cercando di restare umani. È l’umanesimo ciò in cui ci ritroviamo. L’umanesimo sta a sinistra.
A proposito del contatto con la gente, ci sono state molte collaborazioni in questo album. Nomi come Caparezza, Frankie Hi-Nrg Mc, Franco Ricciardi. Musica cos’è, condivisione? Cosa vi lascia ogni collaborazione che fate?
Oggi i featuring sono qualcosa da esibire, da vantare. Già la stessa parola featuring è una parola molto fredda. Per noi sono vere e proprie collaborazioni, che nascono da una stima e amicizia vera. Frankie Hi-Nrg Mc, Michele – Caparezza – sono abbracci sonori, sono incontri. Noi abbiamo sempre studiato attentamente e scelto accuratamente gli ospiti di ogni album. Ciò che ci legava a loro non era semplicemente la voglia di fare un pezzo insieme, o il vantaggio di avere un nome importante. È sempre stata una condivisione d’intenti, uno sguardo sul mondo, ad accomunarci a determinate persone. Con Michele c’è da anni stima e amicizia, così come con Frankie, e anche con Franco, i Foja. Sì, è un abbraccio sonoro. Mi piace l’idea di abbracciare amici all’interno di una canzone, ed è un rapporto che non finisce lì. Ci sentiamo quotidianamente, c’è un’ amicizia e un confronto vero.
In effetti gli artisti in questione non sono tipi da cercare nomi da mettere in vetrina.
Questo te lo fa capire anche il fatto che magari Michele fa tanti featuring, ma raramente esce in un video. Lui parlo di “‘A camorra song’io” quando uscì in modo entusiasta, ci fece sapere che gli piaceva tanto quel brano. Ha dichiarato più volte che è innamorato (ride) della mia voce. C’è stima profonda e amicizia vera. C’è una missione nel mondo che ci accomuna, e io sottolineo e condivido ogni singola parola di chi ha collaborato con noi. Non sono collaborazioni costruite a tavolino. Spero si senta all’interno del disco che c’è una reale condivisione di messaggi, di suono e visione del mondo.
Italiano, o dialetto? Qual è il “linguaggio” con cui vi approcciate meglio al pubblico?
È un discorso, per certi aspetti, molto lungo. Per un napoletano, per chi nasce a Napoli, è veramente difficile rapportarsi con la lingua nazionale. Avendo noi una lingua così importante, ma soprattutto così musicale, diventa davvero difficile privarcene. Perché noi mangiamo, facciamo l’amore, dormiamo, sogniamo in napoletano. Fino a poco tempo fa, quando mi trovavo a scrivere in italiano, risultava sempre una traduzione dal napoletano. E in quanto traduzione, falsificazione. In questi anni ho scritto tantissimo, per diversi giornali tra cui Il Fatto Quotidiano, scrivo libri; ho capito che erano due lingue completamente diverse e che andavano affrontate in maniere diverse. Capito questo, mi è poi venuto naturale scrivere in italiano. Poi dipende dalle tematiche: alcune mi piace affrontarle in italiano, altre in napoletano. Sono due lingue meravigliose che hanno sfumature diverse, e il bello era proprio la sfida dell’italiano.
Ti sei dato un gran da fare.
MI sono impegnato. Fino a poco tempo fa non mi piaceva neanche come lo cantavo l’italiano. Oggi mi piaccio, rispetto a prima. E spero soprattutto di aver sintetizzato i concetti nella lingua italiana, cosa per me non scontata o banale. Farmi capire, insomma. Perché penso che l’obbligo morale di ogni artista sia quello di arrivare a un maggior numero di persone possibili. Possibilmente, senza mai snaturarsi o perdere le proprie radici. È quel che abbiamo voluto fare con questo disco: arrivare al maggior numero di persone, confrontarci con una lingua che amiamo, cercando di non perdere però la nostra identità.
Avete parlato dei social, ma qual è il vostro rapporto con loro?
Nell’ultimo periodo mi sono accorto di essere un dinosauro. Mi parlano di Tik Tik, Tik Tok, di tutte queste cose di cui mi rifiuto completamente anche di capire (ride); anche perché ho paura di alienarmi a mia volta. Ci sto sui social, soprattutto su Facebook. E questo già la dice lunga, perché ormai è considerato un social vecchio. La nostra pagina su Instagram è poco seguita, ma perché non siamo molto social noi. Credo siano importanti, quasi fondamentale di questi tempi instaurare un rapporto con i fan, e comunicare.
Pensi che peggiorerà?
Io mi aspetto che dopo questa ubriacata di social, di sovraffollamento di informazioni, si possa ritornare un po’ all’essenza delle cose. In particolare alla musica. Io sono convinto di aver realizzato un disco bello, importante, e vorrei parlare di musica. Poi le logiche, le visualizzazioni, i social, Spotify, e tutte queste cose qua (ride), mi rendo conto siano importanti, ma torniamo a imbracciare strumenti. Torniamo a girare, a suonare e cantare.
E andare ai live, perché ormai la gente sente il singolo su Spotify, e poi ciao.
È cambiato anche l’ascolto ormai. 10/15 anni fa un disco che aveva bisogno di più ascolti, lo prendevi più seriamente. Dovevi capire, entrare nel mood, entrarci dentro alle cose. Oggi bastano 10 secondi, ma così si buttano via dischi interi. Dietro un disco c’è tanto lavoro, tante energie. Magari un ragazzo di 15, 16 o 20 anni liquida un disco in 10 secondi, tramite Spotify. Guardando i talent e come sta girando il tutto: la musica ormai dura un mese, se va bene. Per chi come me viene da un’altra epoca, io sono degli anni ’90, la musica aveva un peso specifico forte.
Ormai sembra quasi una vita.
Per me sapere che usciva il disco di una band che amavo, era un evento. Quindi andavo a prenderlo, aspettavo con ansia l’uscita, poi lo ascoltavo, lo consumavo. Tutto questo adesso non c’è più. Sarò sincero, faccio fatica, oggi, a rapportarmi a questi tempi. Quindi abbiamo realizzato un disco che mi auguro resterà, non lo so se è così, non sta a me dirlo, ma ci siamo impegnati veramente tanto. È un disco che ha tanta anima e tanta fatica dentro. Non lo so quale sarà il suo destino o cammino, noi abbiamo fatto il nostro.
E l’avete fatto bene. Ma cosa non deve mancare in un brano degli ‘A67, per renderlo davvero vostro?
Deve avere carattere e uno sguardo sul mondo non banale.
Non male. Ci saranno appuntamento a breve?
Il 7 febbraio alla Feltrinelli di Napoli ci sarà la presentazione e staremo insieme a un po’ di amici. Ci saranno Franco Ricciardi, Dario Sansone dei Foja, un saluto di Sandro Ruotolo; e anche Giorgio Verdelli, regista del film “Il tempo resterà” dedicato a Pino Daniele. Un bel po’ di gente che ci verrà a trovare. E poi a marzo partiremo per un po’ di date, sperando di partire da Napoli. Verremo sicuramente a Roma e cercheremo di toccare più città principali possibili, in vista di un tour che partirà quest’estate.
Daniele Sanzone, è stato per me un piacere parlare con te degli ‘A67, di “Naples Calling”, e tutto il resto. La chiusura spetta a te. Per rimanere in tema, sii “scorretto”, a tuo piacimento. A presto!
Mandiamo a fanculo un po’ di politici. Quest’ondata di odio… penso alle ultime dichiarazioni della Mussolini veramente ignobili. Penso alle ultime gesta di Salvini che suona al citofono. Lo inviterei a farlo nel mio quartiere, a Scampia. Vediamo se viene. E grazie a te dell’intervista, ci sentiamo presto. Un abbraccio grande!