Che cos’è “Gentle Unicorn”, opera di Chiara Bersani in scena al Mattatoio di Roma per il Roma Europa Festival? Compulsiamo il vocabolario per fissare le idee. Spettacolo, performance, live art. Spesso siamo spettatori di format sfumati e incerti, di fronte ai quali sorge spontanea la domanda: ma io, qui – il qui è il teatro – che ci sto a fare? Non è un brutto punto di partenza però. Darsi il senso della propria scelta ci sottrae al circuito dell’intrattenimento. E nel panorama attuale, due sono gli strumenti di indagine per stimolare la domanda, due le procedure estetiche: addizione e sottrazione. A chi sostiene la seconda, al grido necessariamente sommesso di “less is more!”, “Gentle Unicorn” piacerà. Io sono fra questi.
Il titolo del lavoro di Chiara Bersani mette negli occhi degli spettatori una lente molto potente. Di quelle che permettono di trapassare i corpi. Non per vedere donnine nude, ma oltre, fino ai desideri. Per chi non lo sapesse, Chiara Bersani è una performer, classe ’84, affetta da osteogenesi. La sua struttura fisica denota lo sviluppo limitato dell’apparato scheletrico. Informazione stigmatica, che potrà forse urtare il lettore. Ma Chiara Bersani conduce da anni una ricerca performativa a carico della sua condizione corporea, facendone il fulcro poetico della sua produzione. Così è anche in “Gentle Unicorn”. E d’altra parte così non può che essere: è sempre il corpo, il fulcro dell’azione scenica. Il corpo è il fuoco, è la poiesi, il punto improprio della rifusione simbolica di cui il teatro può e deve essere il luogo.
Chiara Bersani conduce anche in “Gentle Unicorn” una ricerca performativa a carico della sua condizione corporea.
Il pensiero occidentale è infatti tragicamente binario. Scinde anima e corpo, psiche e soma, spirito e carne, software e hardware. In ogni caso, il primo termine della coppia è come l’uccellino imprigionato oltre le sbarre del secondo, per usare la metafora di Sant’Agostino. Secondo questa profonda deformazione culturale, la patologia portata in scena sarebbe il limite della rappresentazione, un nonostante, una croce da portare in spalla. A un livello superficiale, ciò si manifesta nell’empatia politically correct nei volti e nelle pose del pubblico, di una benevolenza ipocrita perché acritica e disimpegnata. Dovremmo applaudire, alla fine, a prescindere, per non sentirci inumani? Con questo retropensiero mi siedo intorno alla scena, una pedana bianca in fondo alla quale Chiara Bersani aspetta il pubblico, rannicchiata. Ciò che segue mira a demolire il muro culturale tra il corporeo e lo spirituale.
L’unicorno è la via di questo rito che è lo spettacolo di Chiara Bersani. Una creatura simbolica dalle origini incerte. Forse nacque dal fraintendimento di un’antica immagine indiana ritraente un bue di profilo, e dunque con un corno solo. Sgorgate da una menomazione di fatto, due icone scorrono parallele e si incontrano sul palco. La figura leggendaria e la figura della patologia, che altro non è se non discostamento rispetto ad una tendenza osservata, così come lo sarebbe l’avere, per un bue o un cavallo, un corno solo anziché due, o nessuno. Chiara Bersani svolge un’indagine spaziale che parte dall’esplorazione dell’intorno attraverso la propria motilità. Si sviluppa poi una misurazione a carponi del palco. L’attrice segue linee precise, con grazia e lentamente. Si prende il tempo di osservare la distanza percorsa e quella da affrontare. Pianifica. Tossisce. Si affatica.
Chiara Bersani svolge un’indagine spaziale che parte dall’esplorazione dell’intorno attraverso la propria motilità.
In questo pellegrinaggio s’intesse al contempo un dialogo di sguardi col pubblico. Fissati, gli spettatori sprofondano nella voragine narcisistica. Lo stare sul palco semplice e gentile dell’unicorno è un cauto ma spregiudicato mettersi sotto lo sguardo osservatore. Potrebbe sembrare un nulla ciò che accade, solo un’affermazione del diritto di essere lì in scena, a scoprirsi. Ma essere e scoprirsi è forse tutto. Oltre che col pubblico, Chiara Bersani pare intenta in una conversazione silenziosa con se stessa. Fa nascere una dolce curiosità. Ma questo senso di dolcezza conquistato è il frutto di un’epifania. Il gentle unicorn appare nel corpo dell’attrice, evento inatteso che sublima quel pregiudizio pseudo-umanitario che ci vorrebbe inteneriti a prescindere, superficialmente. Il finale celebra questa ricongiunzione in una polifonia di strumenti a fiato, un bosco creaturale di suoni tra i cui rami s’intravede ancora l’unicorno, prima che si abbassino le luci.