Ciao Arianna, benvenuta su music.it. Cominciamo dalla fine: “Works Of Worship”, una tetralogia diretta da Dante Antonelli, ispirata alle opere di Yukio Mishima, di cui è da poco andato in scena il primo episodio a Carrozzerie Not. Com’è andata?
Con Dante Antonelli ci siamo trovati fin da subito. La proposta artistica che condividiamo è che nel corpo ci siano già tutte le risposte che si cercano. Ci sono le parole, le azioni, gli oggetti di scena, le scenografie e le luci. Nel Primo Atto di “W.O.W.” mi è stato chiesto, essendo io l’unica ragazza del gruppo con altri tre attori, di non essere da meno dei tre in scena quanto a forza fisica, di combattere insieme e di non sembrare mai la ragazza del gruppo. Una proposta che ho apprezzato molto. Il mio lavoro è stato allenare nel corpo la percezione della presenza costante di un nemico, e l’allenamento alla tensione fisica che ne consegue.
La tua prova in scena e quello che dici mettono al centro del discorso il corpo. Parlaci meglio di cosa significa per te il ruolo del corpo a teatro.
Amo il corpo e venero le sensazioni che ci offre, antiche e reali. Potrei dirti che ho un culto per il corpo, e in questo mi sento molto vicina a Yukio Mishima, anche se lui aveva una visione molto polarizzata del rapporto corpo-mente. Per me non c’è dualità tra corpo e teatro: il teatro è il luogo dei corpi, dove andiamo a vedere che conseguenze ci sono sui corpi quando si vive una particolare esperienza. Tutto parte sempre dal corpo e le parole si innestano nella realtà attraverso il movimento. Mi piace pensare la mia identità di attrice come un’atleta, una combattente, una martire, una cavia dell’atto teatrale.
Vederti in scena dà la sensazione che tu non costruisca mai un personaggio per addizione, ma che piuttosto intercetti una massa energetica alla quale poi applichi sottrazioni e regolamenti, restando però chiara la sensazione di un piano magmatico di fondo. Quanto ti ci ritrovi?
Provo a dire qualcosa riguardo a come mi approccio a un materiale. Devo premettere che non è per niente semplice razionalizzare qualcosa di così vitale. È un po’ come parlare d’amore: si rischia di essere patetici, da un lato, oppure parziali e cinici, nel caso opposto. Penso che tu ti riferisca all’idea di una me che parte da una sovrabbondanza eccentrica e cerca col tempo di domarla.
È proprio così: io tendo a sovrabbondare nella vita, e quando inizio un lavoro entro nel parco giochi, lascio che fantasia e ferocia si accoppino e poi lavoro duro per mettere al guinzaglio i figli. Non lavoro per invenzione ma per emanazione. Lascio che tutto ciò che c’è di brutto, bello, sporco, giusto, sbagliato, caotico, esagerato esca fuori, purché mi riguardi.
Quello che dici sembra negare la possibilità che a teatro sussista la possibilità di dividere giusto e sbagliato.
Mi piace quello che esce per sbaglio, senza pensarci, all’improvviso, in difficoltà o sotto fatica, senza lasciarmi il tempo di pensare, di scegliere, come quando sei dentro ad un ritmo. Cerco di esserci in tutta la mia limitatezza storica e fisica. E quanto è tosta accettare di avere dei limiti! Non posso sopportare di non compromettere me stessa nel lavoro. Io odio quando chi parla non è direttamente compromesso. Non capisco perché dovrei stare ad ascoltarlo. Il piacere sta nel trovare il pertugio dentro al testo dove infilare tutta me stessa.
Il tuo sembra il manifesto di un teatro radicale, di verità nuda e cruda. Non c’è appello, dunque, per i compromessi che il mestiere impone? In nome di cosa ci si può adattare ai vincoli della realtà?
Questo è il desiderio, poi c’è la realtà, dove le cose riescono e avvengono a intermittenza o per miracolo. A quel punto, nel mio lavoro, subentra la fiducia, che secondo me è il quid magico dell’arte in generale. Andrebbe venduta fuori dall’uscita agli artisti degli spettacoli brutti: senza fiducia non c’è rischio, né divertimento, piacere, o abbandono. Fiducia nel regista e nelle proprie capacità, fiducia in quello scossone che in me arriva puntualmente all’inizio della terza settimana di prove, quando il controllo tecnico e logico fa cambiare colore a tutto. Lì cerco di non farmi ammaliare dal diavolo che dice di controllare quello che non si può controllare. La fiducia, che io ho per natura, forse in eccesso, è anche costringersi a fidarsi quando ci si trova in situazioni o con persone di cui non ci si vorrebbe fidare.
In che modo questa fiducia influisce sulla materia dello spettacolo?
Quando arrivo alle prove sono fiduciosa nel potere dell’esperienza di per sé, senza giudicare la mia disposizione d’animo e chiedermi se sia adatta o meno al tipo di lavoro che devo fare. La fiducia mi permette di arrabbiarmi, a ridere, ad annoiarmi, a rovinare tutto. La fiducia fa sì che non si provi il bisogno di dare colori ai materiali, di giudicare il lavoro durante il processo, come a dire «questo è comico, questo invece è tragico». A differenza di come a volte si sente dire, io non credo sia possibile fare vuoto dentro di sé e in generale non credo nel vuoto. Credo nel mettere in comunicazione il mio caos con il caos all’esterno.
Parlaci della tua formazione. Come si è avvicinata al teatro Arianna Pozzoli?
Ho iniziato a studiare danza classica quando avevo tre anni e mezzo. Per molti anni sono stata la più piccola e quasi la mascotte del gruppo. Ho continuato più o meno fino ai 14. Quando sono entrata in Accademia sono letteralmente impazzita – come impazzisce qualsiasi 19enne invasata – per il teatro fisico, una formula che ora mi fa un po’ ridere. Perché è come dire teatro teatro. Ho avuto degli insegnanti meravigliosi, un attore storico dell’Odin, una clownessa lecoquiana. Ma si dice così? (Ride). Poi, intorno ai vent’anni ho iniziato a studiare danza contemporanea, tutto questo per il teatro.
Facciamo un gioco: dove ti vedi fra dieci anni?
Non ne ho idea, e se ci penso mi vengono le vertigini: ho imparato che per me stare bene è non proiettarmi, ma stare in ascolto. Certo, in realtà è semplice se chiudo gli occhi: a teatro. Un po’ come Anastasija Romanova che ritorna nel palazzo di quando era bambina e ne vede i fantasmi. Per me proiettarsi in avanti è sempre un forte desiderio di ritornare. Teatri grandi e belli, Italia, Europa. Vedo relazioni, follie per strada di notte e a mezzogiorno, scelte che costruiscono la mia esistenza. Sogno una donna che vive della sua missione come un mestiere.
Ora voltati e guarda indietro. Arianna Pozzoli a teatro, per la prima volta. Dove sei?
È la recita di quinta elementare, le maestre mi hanno dato il personaggio del mendicante. Una delusione! Io avrei voluto la principessa, ma in classe c’era una bambina bionda con gli occhi azzurri e io, stramba e mora, non potevo certo andare bene per la principessa. Così, quando mi hanno assegnato il mendicante, ho deciso che fosse il personaggio principale. In fondo, stava in scena per tutta la durata della pièce. Nel testo era il ruolo di uno squattrinato dispettoso e sarcastico. Tutto questo mentre racconta, commenta, prende in giro, parla con il pubblico, canta! Ricordo il giorno del saggio. Ricordo che stavo finalmente cantando la mia canzone davanti alla platea piena «mendicante / sono niente / a chi mi guarderà / ossa stanche ad una colonna». Una blanda imitazione di Riccardo Cocciante. Credo di averla cantata con un pathos veramente terribile, ma in preda ad una sensazione splendida pensavo forte che avrei voluto tanto cantarla ancora. A quel punto, subito dopo quel pensiero di bambina, dal pubblico ho sentito chiedere «BIS!». Magia?